 Esistenzialismo e vendetta on the road This Must Be the place Paolo Sorrentino dirige un Sean Penn da Oscar
di Roberto Leggio C'è molta noia (e tanta depressione), nella vita di Cheyenne ebreo cinquantenne, rockstar gotic-rock, pensionato d'oro che vive recluso in una villa faraonica nei pressi di Dublino, in compagnia di sua moglie, l’unica (forse) a capire la sua forzata solitudine. Va in giro con i capelli cotonati, il rossetto sulle labbra e gli occhi bistrati di nero, come se gli anni ruggenti non siamo mai passati. Ha una amica quattordicenne che vorrebbe fargli da biografa, con la quale una volta al mese si reca al cimitero a far visita di due giovani suicidatisi grazie ai testi delle sue canzoni. Nella pesantezza della sua esistenza, un giorno riceve la notizia che suo padre, con il quale non si parlava da trent’anni, è morto a New York. Recatisi sul posto viene a conoscenza che il genitore era stato internato ad Auswitz e che per il resto della sua vita, ha cercato di rintracciare il nazista che l'aveva vessato e umiliato. Contro ogni logica, Cheyenne inizia così una grottesca e lucida caccia all’uomo, attraverso un’America da cartolina, con i suoi panorami silenziosi e suoi simboli “immortali”, alla ricerca di un vecchio probabilmente morto da anni.

Al suo debutto nel cinema “americano” in lingua inglese, Paolo Sorrentino centra il colpo, confezionando un film perfetto, emozionante e commovente, senza tanti estetismi e giri di parole, forse un po’ troppo “europeo” per i canoni d’oltreoceano. Quindi un po’ troppo intellettuale, ma lo fa con una leggerezza quasi impalpabile. Mostra spazi ventosi, piscine quasi vuote e dialoghi intensi, alternandoli con le musiche di David Byrne (ex leader dei TalkingHeads, nella parte di se stesso) e Nino Bruno, che firma il leit motiv della pellicola (Every Single Moment in My Life is Weary Wait). Nella sua essenza This Must Be The Place (dalla canzone omonima proprio dei TalkingHeads), è uno sguardo appassionato alla sconfinata frontiera americana, con uno stile malinconico e molto esistenzialista. Incarnato da un grandissimo Sean Penn (copia “conforme” di Robert Smith dei The Cure), un uomo alla riscoperta di sé (e delle sue radici), attraverso una verità pesante e sconcertante. Un bambino nel corpo di adulto, che cerca di disfarsi di un fardello troppo pesante (raffigurati nel carrello e nel trolley che il protagonista trascina per tutto il film) per chiudere per sempre con i fantasmi del passato e riappropriarsi della serenità (diventando finalmente uomo). Una storia commovente, introspettiva ed illuminate, che levita passo dopo passo, lasciando la sensazione di aver assistito ad un capolavoro unico ed “inusuale” che va oltre ogni categoria. Sbalorditivo. Rock, per l’appunto.
Giudizio ****

(Giovedì 13 Ottobre 2011)
Home Archivio  |