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On the road esilarante e grottesco…

Il Responsabile delle Risorse Umane

Alla riscoperta dell’umanità perduta


di Roberto Leggio


La solidarietà umana. Bella cosa. Se esistesse. O se, come nel caso di questo apologo cinematografico sull’’essenza dell’umanità, servisse ad aprire gli occhi “sull’altro”, quello che magari sfioriamo ogni giorno e non ci chiediamo “chi sia, da dove venga e perché si trovi qui”. Il responsabile delle Risorse umane, opera che rappresenta Israele alla corsa all’Oscar come miglior film straniero, va alla ricerca di quella umanità che abbiamo perduto nei confronti di chiunque ci circondi e che vogliamo tenere alla larga. Lo spunto è quanto mai illuminante: una ragazza romena, immigrata a Gerusalemme, viene uccisa (con tanti altri) durante un attentato terroristico. Non avendo addosso alcun documento di identità, tranne un cedolino paga del più famoso panificio della città, il suo corpo viene lasciato per giorni all’obitorio senza che nessuno vada reclamare il cadavere. Un giornalista “scandalistico” denuncia l’azienda che non si è nemmeno accorta della mancanza della sua dipendente. Per rimediare alla vergogna, il “Responsabile” del titolo (un uomo con un matrimonio sfasciato e lo sfascio verso la figlia quattordicenne), viene spedito nel paese balcanico a riportare la salma, così un figlio (selvaggio), un marito (perduto) e una madre (disillusa) possano identificarle e darle una compassionevole sepoltura. Nel viaggio, da fiaba grottesca, lo accompagnano una compagnia di strambi personaggi, che lo aiuteranno a capire qualcosa di più sulla vittima e ritrovare il senso della (propria e della altrui) coscienza.

La materia è tratta dal romanzo di Abraham Yeousha, che il regista Eran Riklis usa come tornasole per narrare una parabola morale, con picchi di irresistibile ironia, affrontando il tema universale del potere della colpa. E lo fa mettendo in scena un on the road iniziatico, malinconico e surreale. Lo stile è sincero, senza orpelli e forse non cerca nemmeno di smascherare la dignità che ogni “compagno” di viaggio nasconde nel suo lato “oscuro”. La consapevolezza dell’essere, dell’appartenere a questa o quella “società” affiora progressivamente ai chilometri che i personaggi macinano con i vari mezzi di locomozione che si trovano ad utilizzare. E quando nel finale la bara si troverà ad essere issata su un mezzo anfibio dell’esercito, il miraggio delle speranze dei migranti è talmente palese che non ci si può soffermarsi a riflettere il contrario.

Giudizio ***



(Martedì 7 Dicembre 2010)


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