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Work and life on the dark side of the moon

Moon

Fantascienza d’antan con sorpresa


di Roberto Leggio


E se la parte oscura della luna fossimo noi stessi? O ancora meglio il nostro doppio? Moon, dell’esordiente Duncan Jones, primogenito di David Bowie (che per anni lo chiamò Zowie), è un film intelligente ed illuminante, summa e recupero della fantascienza anni ’70, senza tanti effetti speciali ma con molte idee. Sam Bell, l’astroperaio della Lunar, ha un contratto triennale per fare da supervisore a dei rastrelli lunari che grattano la superficie nascosta del satellite, per estrarre l’Helium 3, prezioso gas con il quale la terra ha finalmente posto fine alla crisi energetica mondiale. Vive solo nell’unica base lunare in compagnia di un robot tuttofare, dalla voce laconica e petulante (nell’originale di Kevin Spacey) capace però di confortare l’uomo in tutto e per tutto. A due settimane dal suo ritorno sulla Terra per riabbracciare moglie e figlia, per un banale incidente si risveglia in “compagnia” di se stesso, più giovane di tre anni e caratterialmente più deciso a scoprire la verità sulla realtà della loro vera origine.

Sostenuto da una regia appassionante, Moon è la dimostrazione che si possono fare film di genere senza cifre esorbitanti e senza strabiliati effetti digitalizzati. Le scenografie e certi particolari ci riportano alla memoria quei film di fantascienza a basso budget che andavano per la maggiore proprio negli anni ’60 e ’70. La Base lunare, ad esempio, assomiglia di molto quella di Spazio 1999 (solamente più sporca e disabitata), mentre Gerty (il robot “emoticon”) ricorda (anche se più in grande) quello di Silent Running. Senza contare lo straniamento di Solaris e il rapporto uomo/macchina di 2001 Odissea nello Spazio. Ma più delle ambientazioni è la possente metafora contenuta tra le pieghe della trama. Il futuro della Terra sarà possibile solo a costo di vite umane, come dimostra lo sfruttamento senza sosta dei “cloni”; destinati a deteriorarsi ogni tre anni e venire perciò rottamati da una copia perfettamente identica, programmata per avere le stesse funzioni, senza considerare che possa avere una vita propria e provare delle emozioni. Resta solo un mistero da svelare: quanto Duncan Jones sia stato suggestionato dal personaggio del Maggiore Tom di Space Oddity, che suo padre cantava alla fine degli anni ’60. Magari è solo un puntiglio, però anche lì si parlava di un uomo che si perdeva dall’alto della Luna…

Giudizio ***



(Giovedì 10 Dicembre 2009)


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