 Oliver Parker crea un Dorian Gray gotico lontano da Wilde Dorian Gray Adattato al trend audiovisivo per fare incasso al botteghino.
di Samuele Luciano Stanley Kubrik aveva una prerogativa: fare film tratti da romanzi “imperfetti”. Il suo parere era soggettivo s’intende, ma semplicemente trovava una cattiva idea fare film su capolavori letterari. Perché? Perché maggiori sono le probabilità per chi ha letto il libro che il film possa deluderlo. A meno che il film si stacchi a tal punto dal libro da divenire un capolavoro a se stante. Kubrik era un regista che voleva girare capolavori, che credeva nel cinema come mezzo d’espressione nuovo e soprattutto iniziava a fare film negli anni’ 50. Siamo nel 2009, Oliver Parker è un regista che non intende girare un capolavoro, è solo innamorato del romanzo di Oscar Wilde (lo siamo tutti!) e vuole adattarlo al trend audiovisivo attuale in modo da fare botteghino. Parker non ha alcuna intenzione di divulgare il capolavoro di Wilde, l’hanno letto tutti, né vuole realizzare nessuna opera intellettuale di uguale portata: deve piazzare un prodotto concorrenziale sul mercato cinematografico. Per questo ci vogliono garanzie: un titolo che citi qualcosa di conosciuto, una trama mistery, qualche effetto gore, e degli attori famosi.

Tutto questo non manca nella trasposizione filmica de “Il ritratto di Dorian Gray”, quello che manca, e tantissimo, è Oscar Wilde. Dopo i titoli di testa molto “cool” il film si apre sul volto del giovane Dorian imbrattato di sangue: sta uccidendo il pittore che l’ha ritratto. Ma perché tutta questa enfasi sull’assassinio? Il film s’intitola per caso Venerdì 13?. Dopo questo incipit splatter inizia la storia di Dorian Gray. In una sequela di lussureggianti cambi di scena si può ammirare l’innocente adone arrivare nella Londra di fine ‘800, ed entrare nei salotti aristocratici dove incontra il cinico Henry Wotton. In effetti è proprio nella prima mezzora che Oliver Parker riesce a catturare l’attenzione in modo quasi delizioso, complici i dialoghi al vetriolo tra Dorian e Wotton, cioè la vera essenza dell’opera di Wilde: gli aforismi. Dopodiché il regista si limita ad “illustrare” il vizio: la caduta del giovane nel piacere edonistico fine a se stesso. Parallelamente assistiamo alla rappresentazione reiterata del deperimento del quadro che ritrae Dorian Gray. Insomma i restanti 90 minuti di costosa pellicola sono ridotti a puro voyerismo. Oscar Wilde, in quanto scrittore, lavorava con le parole più che con le immagini e usò la metafora del quadro per illustrare qualcosa di invisibile quale è l’anima. Il quadro era dunque un espediente narrativo con ben altro fine, e non può che essere esile come pretesto per realizzare un horror –movie. Ma lo sceneggiatore del film, Toby Finlay, evidentemente non sarebbe d’accordo. Per la parte di Dorian Gray il produttore del film, Barnaby Thompson, ha scelto l’attore Ben Barnesin ( “Un matrimonio all’inglese”) dopo che l’ha notato per il suo bell’aspetto. No comment. Colin Firth è perfetto nel ruolo dello stronzo (dopo che l’ha detta l’on. Fini la parolaccia è di dominio pubblico) incarnando un Henry Wotton abbastanza credibile e forse il tassello più interessante.
giudizio: * *

(Venerdì 27 Novembre 2009)
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