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Al cinema in India

Raj Mandir cinema

Lo spettacolo è la sala, ed il pubblico che lo frequenta


di Sandro Russo


Jaipur, 12 gennaio 2006. Se uno sta in India, e vuole saperne di più della società indiana e viverne le contraddizioni che la caratterizzano, basta seguire i consigli della guida Lonely planet: “A Jaipur non mancate di vedere un film in hindi al Ray Mandir Cinema, che è per le sue caratteristiche una delle attrattive del posto”.
Letto/fatto. Ci si avvia per tempo per strade interne (dopo alcuni giorni di permanenza in città, la mappa di Jaipur non ha più segreti per noi) alla volta del cinema.
Ma la scelta di fare la strada a piedi si rivela presto infelice; si passa sul bordo di marciapiedi gremiti di donne e bambini per lo più stesi o accovacciati per terra. A volte davanti a un fuoco fatto tra due mattoni presi dal marciapiede stesso. I bambini di solito si alzano per chiedere l’elemosina; le donne salmodiano la stessa cantilena sentita mille volte. Ci si districa con difficoltà.
Subito oltre il bordo della strada c’è un fiume ruggente di macchine e motocicli che travolgono tutti con allegra noncuranza. Questo è un paese dove la pietà ha imparato a morire. E dall’altra parte della strada c’è un Istituto di Gesuiti, circondato di belle mura alte e difeso da cancello a punte.


Chiediamo ancora qualche informazione, e finalmente arriviamo al cinema. Prima sorpresa: al botteghino dei biglietti la fila delle donne è separata da quella degli uomini (come dappertutto, qui. Anche nella metropolitana di Delhi). Chiedo se i sessi sono separati anche in sala. Mi dicono di no.
Il cinema è enorme -per un migliaio di spettatori, dice la “Lonely Planet”-. C’è un atrio comune per le due grandi sale, con scalee maestose e fregi a stucco rosa confetto alle pareti. La folla riempie l’immenso locale in modo quasi ordinato; non si fuma. In terra c’è una spessa moquette. Tutti sgranocchiano pop corn e patatine; in sala, a differenza che da noi, queste attività sono invece vietate.
All’ora stabilita si entra tutti in sala; la folla è disciplinata, quasi intimorita; le poltrone sono numerate. La parete e il soffitto della sala sono fatti di enormi conchiglie e tortiglioni. Mai visto niente di simile.
La sala è gremita. Gli spettatori sembrano appartenere alla media borghesia urbana, che può permettersi circa un euro e mezzo per il biglietto. Circolano diversi telefoni cellulari, che verranno poi spenti.


Il pubblico è molto partecipe e sottolinea con applausi e risate le battute degli attori. Il film, di cui non ricordo il titolo né il regista, è una specie di musical in hindi. È un qualcosa che non si può guardare, per la storia, la recitazione e tutto il resto… Ma non siamo venuti al cinema per “lo specifico cinematografico”.
Le scene rappresentano un mondo dorato; residenze e macchine di lusso, aerei e jet-set internazionale. Una specie di Dinasty all’indiana.
Fortemente diseducativo, tra l’altro, con corse in moto senza casco e due bambini che si mettono a guidare un aereo da turismo divertendosi un mondo. La simbologia è quella solita dei film indiani: sguardi intensi, casti abbracci e gran danze tra i fiori, per descrivere l’estasi sessuale.
A metà spettacolo circa, un po’ di spettatori sfollano: tutti gli occidentali richiamati dalla stessa guida, sembra di capire…
Si rimane un po’ a pensare alla schizofrenia di questa società, ancora più evidente che da noi per l’enormità dei contrasti.

Per tornare non ci basta il coraggio per rifare la strada a piedi; optiamo per un dignitoso three-wheeler (“tuk-tuk”, un’Apetta Piaggio che fa funzioni di taxi ) che ci riporta al nostro albergo per una strada fortunatamente diversa.


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(Giovedì 11 Dicembre 2008)


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