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 Nel film “I demoni di San Pietroburgo” Riflessioni sul potere Dostoevskij e il futuro del socialismo
di Piero Nussio  Nel 1866 il romanziere russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij scriveva -in cinque giorni- il romanzo semi-autobiografico “Il giocatore”, oppresso dalla fretta, dai debiti, e dai ricordi della sua gioventù da sovversivo. Accadeva nella città di San Pietroburgo, città imperiale, l’unica ad assomigliare ad una capitale europea, lungo i palazzi costruiti per lo Zar Pietro il grande dagli architetti italiani nel ‘700. Il porto nel Baltico, la splendida città del nord sulla Neva, era stata fatta edificare dal grande Zar al ritorno in patria, invidioso di Berlino e Varsavia, e con un occhio a Roma e a Parigi. Nel 1866 era Zar di tutte le Russie (e duca di Finlandia) Alessandro II Romanov, che sarebbe morto meno di vent’anni dopo in un attentato nichilista. All’epoca, i rivoluzionari radicali erano anarchici e nichilisti, secondo la predicazione del principe Michail Alexandrovič Bakunin, che rifiutava qualunque governo e sovrano. Il sovrano russo era detto “zar” a similitudine di “caesar”, Giulio Cesare l’imperatore romano. Mentre però Giulio Cesare non volle mai farsi re, gli zar russi erano esseri più divini del faraone, e una popolazione di servi della gleba doveva loro un’adorazione quasi religiosa. A questo potere assoluto si opponevano i socialisti e gli anarchici che, latino per latino, al “caesar” opponevano il “nihil”, ossia il nulla, simbolo dell’uccisione violenta dei regnanti.
In questa storia si inserisce il racconto filmico de “I demoni di San Pietroburgo”, che Giuliano Montaldo ha ricavato da un’idea di Andrej Končalovskij. Gli scrittori russi dell’ottocento prendevano forte posizione nel dibattito politico, e lo stesso termine “nichilismo” era stato divulgato al grosso pubblico dal romanzo “Padri e figli” di Ivan Sergeevič Turgenev. Come il contemporaneo Tolstoj, anche Dostoevskij fu attratto dal socialismo e dalla sua pratica violenta ed estremistica, che attirava in quei tempi tanti giovani intellettuali. L’azione del film di Montaldo non è però situata negli anni dell’impegno rivoluzionario di Dostoevskij, ma quasi vent’anni dopo quel periodo. Nel frattempo lo scrittore era stato arrestato, condannato (per reati di opinione), ed aveva scontato dieci anni di prigionia in Siberia.
 La sinistra “radicale” aveva intanto fatto nuovi adepti, in parte grazie anche alle opere di Dostoevskij, Tolstoj e Turgenev, ma soprattutto per il diffondersi dell’idea della “azione esemplare”. I nuovi rivoluzionari del 1866 erano convinti che fosse sufficiente uccidere, con un’azione esemplare, i membri della famiglia al potere perché si potesse accendere istantaneamente e magicamente il fuoco della rivoluzione socialista. Idea non prerogativa del mondo russo, considerando che sul finire dell’ottocento tutta l’Europa è stata percorsa da questa febbre, ma che trovavano in Russia un terreno particolarmente significativo. Erano alcuni nobili, a partire da Bakunin e Kropotkin, a predicare la filosofia dell’anarchismo “esemplare”, ed appartenevano alla classe agiata tutti gli scrittori socialisti, così come i terroristi, la mano d’opera di quei violenti anni di piombo. Anche perché, come scoprì Dostoevskij durante la detenzione in Siberia, le classi popolari erano totalmente lontane dai problemi del potere e del dominio, ed ignoravano qualunque prospettiva che non fosse la sopravvivenza quotidiana alle durissime condizioni di vita. La Russia non aveva mai sviluppato quella classe intermedia di commercianti e professionisti, quella borghesia mercantile che in Italia ha fatto il Rinascimento e che aveva preso il potere nell’Europa continentale con la rivoluzione francese. In un mondo senza borghesia, con le classi umili in un’imbarazzante condizione servile quasi schiavistica, la lotta fra conservazione e innovazione era un affare tutto interno alla nobiltà e ai grandi proprietari terrieri.
È strano, ed il film di Montaldo lo sottolinea, come pochi luoghi siano stati comunque il simbolo del potere assoluto in Russia. Il “Palazzo d’Inverno” -il palazzo del potere per antonomasia- che appare nelle bellissime inquadrature che fanno da sfondo al film, e che sarà emblematicamente conquistato dalla Rivoluzione d’Ottobre. La Siberia, il luogo di tutti i gulag, che lo zar e i bolscevichi useranno per liberarsi degli oppositori scomodi. Il Cremlino, la cittadella fortificata che sarà sede dei principi e imperatori, sia che li contraddistingua l’aquila coronata a due teste, la falce e martello, e più di recente il logo della Gazprom. Ma più che la costanza dei luoghi del potere, vale però la pena notare l’assoluta variabilità delle situazioni, negli anni. Dal 1866, in meno di centocinquanta anni, l’unico valore rimasto stabile è quello del romanzo “Il giocatore”. La città dove fu scritto si chiamava San Pietroburgo, divenuta poi Pietrogrado dal 1914 fino al ’24, e successivamente Leningrado dal ’24 al 1991. Ora è tornata a chiamarsi col nome originario di San Pietroburgo, che aveva al tempo di Dostoevskij.
 Lo Zar Alessandro II, che regnava all’epoca, morì in un attentato nel 1881, e la sua famiglia Romanov fu sterminata nel 1918. Il bolscevismo, che prese il suo posto, è durato fino al 1991. Intanto, fra morti, rivoluzioni e attentati, la Russia attuale ha ripristinato la bandiera bianca-blu-rossa e l’aquila coronata a due teste che fu di Pietro il Grande, con il simbolo di San Giorgio che uccide il drago. (Incidentalmente, la leggenda di San Giorgio sembra sia stata resa concreta da una truffa dei mercanti genovesi che vendettero false reliquie e stemmi veri agli inglesi. Forse anche per i russi il San Giorgio deriva da qualche truffa di commercianti mediterranei).
La storia della rivalsa delle classi più umili rispetto agli sfruttatori sembra dipendere molto più dal capitalismo selvaggio che dai teorici del socialismo. Come in Asia lo sviluppo delle condizioni di vita della popolazione è dovuto più alla rivoluzione tecnologica che non alle rivoluzioni politiche, in Russia sembra più risolutrice la fiaccola della Gazprom che non quella del socialismo, per le condizioni essenziali di vita della gente.
In queste ambasce si dibatte il Dostoevskij del film di Montaldo quando, da un lato, si sente ancora partecipe dei movimenti anarchici che l’hanno visto sodale e prigioniero, ma dall’altro realizza che l’unica vera azione rivoluzionaria che può compiere è quella di denunciare tutto il complotto alla polizia politica.  C’è, nel film “I demoni di San Pietroburgo”, un raffinato ispettore di polizia interpretato da Roberto Herlitzka con la sottigliezza degna del grandissimo attore. Il poliziotto si rende conto, dopo tanti anni passati a combattere i “sovversivi”, che in loro c’è più umanità e ragione che non nell’ancien regime che difende. E sa pure che sono loro destinati, nel tempo, a vincere. Però li continua a combattere e ne ritarda la presa di potere, forse perché i frutti devono giungere a maturazione completa. Intanto studia, frequenta ed aiuta (a modo suo) i pensatori e gli intellettuali. Vladimir Putin non è certo raffinato come il personaggio di Herlitzka, ma l’antico colonnello del KGB non svolgeva, per l’ancien regime del suo tempo, un lavoro tanto diverso da quello del predecessore.
Giuliano Montaldo ha una lunga consuetudine con i “sovversivi”, da Giordano Bruno a Sacco e Vanzetti, e le sue riflessioni sui modi che ha l’umanità per liberarsi dall’oppressione sono degne della massima attenzione. Al tempo in cui molti sembravano solo ubriachi di violenza, aveva capito che solo la chiarezza del ragionare di Bruno o la mitezza di pensiero di Nicola Sacco potevano divenire una forza dirompente di cambiamento. Ora ci ricorda che il socialismo è nato dal conte Henri de Saint-Simon, e che l’anarchia è sorta dal pensiero di due principi russi. Non si scandalizza, perciò, che un pensoso Dostoevskij denunci il complotto terroristico, e alimenta l'idea che la rivoluzione possa aver bisogno del lievito della polizia politica per giungere finalmente a maturazione. L’idea di far agire Fëdor Dostoevskij in quegli anni particolari non si è formata a caso nella testa di Andrej Končalovskij (regista russo, fratello di Nikita Michalkov): tra il 1866 e il 1873 il grande scrittore elabora “I demoni” e “Diario di uno scrittore”. L’ex socialista nichilista lascia emergere i tratti conservatori del suo pensiero, e sembra rinnegare le passioni rivoluzionarie della giovinezza. Končalovskij, soggettista di Andreij Rublijev per Tarkovskij e di Schiava d’amore per il fratello, è stato vent’anni esule negli Stati Uniti, dove si è messo a girare opere di consumo. Conosce quindi, forse più degli amici rimasti in patria, i compromessi cui spesso conviene piegarsi. Montaldo, in Italia, ha sofferto meno traversie dei russi, ma il suo lungo silenzio dal 1991 ad oggi è più eloquente di tanto parlare. Come tutti noi ha vissuto il dissolversi del mito del “socialismo scientifico” e l’ingloriosa fine del leninismo. Con questo film, tornato finalmente a parlare e a poter esprimere la sua cinematografia possente, ci racconta -attraverso le riflessioni di Dostoevskij- quanto sia importante tornare a riflettere sulla società con tutto l’ottimismo della ragione.
(Mercoledì 7 Maggio 2008)
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