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“Non è un paese per vecchi”

Le regole giuste

L’America ha perso quei valori che l’hanno resa grande


di Pino Moroni


Non è un paese per vecchi non è un film lineare, perché parla di un momento complesso di una America che sta perdendo quei valori che l’hanno resa grande. I fratelli Coen ne hanno preso il filo conduttore dal romanzo di Cormac McCarthy.

Le regole giuste, nate nel Grande Paese agli inizi dell’altro secolo sono quelle codificate dagli sceriffi e dai giudici della frontiera, fondate sulla onestà, l’umanità ed il senso dell’onore. I Coen narrano con il loro genio la mutazione di quelle regole ed aprono un discorso sulle nuove.

L’ultimo sceriffo, di generazioni di sceriffi, è Ben (interpretato con rispetto da Tommy Lee Jones) che apre, come voce narrante, un’ icona luminosissima di deserto texano, ricordando nostalgicamente il padre ed il suo esordio da sceriffo a 25 anni. Alla fine del film ritroviamo Bell in pensione che ricorda ancora suo padre ed una trasognata galoppata con lui sulle montagne. Quando gli sceriffi non portavano nemmeno la pistola.


Questo il ricordo, ma per i Coen, alle regole originarie si sono sostituite nell’America degli anni ‘80, ed ancor più oggi, le regole del denaro sporco, le regole del male assoluto: americani e messicani che trafficano droga ed un killer paranoico, interpretato con fisicità da Javier Bardem, che persegue una sua originale regola causale.

Chi si trova sulla sua strada è morto, salvo la scelta di salvarsi giocando a testa o croce.


Su queste tre regole: rispetto della legge, fuori della legge e follia, i Coen costruiscono poi altre regole ed infrazioni di regole, venali o mortali, in cui incappano i personaggi fino ad arrivare a raggiungere un caos di regole che azzera tutti gli sforzi razionali di una America ormai stanca e disincantata.
Lo stesso protagonista Llewelyn Moss (Josh Brolin), un cacciatore che per caso viene in possesso di una valigia con tanto denaro frutto di un sanguinoso scambio con droga non rispetta le minime regole di sopravvivenza. Si trova così braccato da tutti: polizia, mafia, messicani, killer paranoico, un agente speciale, cultore delle regole più raffinate che non si guarda nemmeno alle spalle.
È così geniale il racconto del gioco delle regole e delle non-regole, in un mondo impazzito, che fa dimenticare quasi la strategia filmica dei fratelli Coen, fotografata mirabilmente da Roger Deakins, fatta di grottesco, di umorismo nero, suspense, orrore, western e poliziesco.
Nel finale sembrerebbe che i registi abbiano perduto anche le regole del “genere”.


Calata la tensione, la compattezza e la incisività, il film si sfilaccia in schematiche conclusioni.
Il protagonista all’improvviso “scompare”, non è più essenziale, il malloppo perde il suo valore assoluto, la moglie del protagonista si rifiuta di giocare a testa o croce, il killer rispetta un semaforo e viene travolto da un’altra macchina: il caso si diverte a rimescolare le regole o sono i registi stessi che vogliono disorientare lo spettatore che non accetta un tale finale?
In chiusura lo sceriffo fa visita ad un sopravvissuto del passato, raccontando di uno zio ucciso sulla porta di casa da una banda a cavallo nel 1909. Perché anche allora la frontiera era molto violenta.

Poche illusione per gli americani, il west è sempre lo stesso. La fine dei valori, la prevalenza del danaro, ma soprattutto la confusione delle regole portano ad un declino di questa società, nata dalla violenza ed alla quale sta ritornando.
Ma al di là del frammentario crepuscolare, pessimistico finale, il film, fatto di natura sconfinata e camere di hotel di provincia, è pari ai precedenti capolavori (Fargo 1995, Il grande Lebowski 1997, L’uomo che non c’era 2001) e molto vicino al film d’esordio, quel Barton Fink (1991) con cui i fratelli Coen, narravano di un commesso viaggiatore pazzo e piromane, incarnazione del male assoluto che sta invadendo l’America.


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(Martedì 18 Marzo 2008)


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