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 Un "cinema indipendente" americano Juno Forse inizia, tutta nuova, una ricostruzione dei valori umani
di Piero Nussio Stavolta, la voglio buttare proprio in politica. Juno è un film americano che tratta di una sedicenne che rimane incinta, pensa di abortire, ma poi decide di tenere il bambino e farlo nascere. No. Avete capito male: nonostante il succo della trama sia questo, non è proprio un film anti-abortista e qualsiasi riferimento a Ferrara e alla sua lista elettorale è totalmente senza fondamento.
Anzi, parlando di cinema, è improprio qualsiasi riferimento ai Ferrara, né a Giuliano, ma nemmeno al regista americano Abel Ferrara: lì le piccole provocazioncelle televisive di un personaggio di poco conto nonostante la mole, là la violenza e il mondo cupo della mala e dei fuorilegge. Oppure il senso del peccato e il demi-monde dei locali e della grande città. Juno è dall’altra parte del mondo. Negli Stati uniti, ma in Minnesota, dove la sceneggiatrice lo ha pensato. Meglio ancora, in Canada a Vancouver, dove il regista lo ha girato. Comunque agli antipodi delle scene di violenza, degli inseguimenti fra gangster, degli ambienti della mala, della violenza efferata, dei serial killer, dei reduci disturbati.

Di recente, dagli Stati Uniti ci sono arrivati dei bellissimi film, molto dolenti ed altrettanto violenti: sto pensando a Nella valle di Elah (Paul Haggis, 2007), a Non è un paese per vecchi (Joel e Ethan Coen, 2007), Million dollar baby (Clint Eastwood, 2004), che parlano di una dura vita quotidiana e dello svanire del “sogno americano”. Dal Canada è arrivata l’opera di Denys Arcand (“Il declino dell’impero americano”, “Le invasioni barbariche”, “L’età delle tenebre”) che ha documentato trent’anni di frustrazioni e incomprensioni umane (“Amori e resti di umano”, tanto per citare un altro dei film del canadese).
Juno adotta un altro registro: è una commedia, è vissuta da sedicenni col loro gergo e il loro punto di vista, è ottimista “per forza” come chi ha comunque tutta una vita davanti a sé, e la vuole vivere comunque bene.

Non è una pellicola né consolatoria né giovanilistica, ed è disperata come chi contempla le rovine di un bombardamento appena avvenuto. Però con la voglia di tirarsi su le maniche e darsi da fare per cominciare la ricostruzione. La protagonista chiede al padre «Secondo te, è possibile che due persone stiano bene insieme per sempre, o almeno per un po’ di anni?». Ed il padre, che sta con un’altra donna, «Beh, io non sono proprio il miglior esempio…». Non è il miglio esempio, ma almeno è onesto e disponibile, come del resto la matrigna di Juno, che litiga con l’infermiera al posto della figlia acquisita.
È che il regista, Jason Reitman, è uno che ama scompaginare le carte, e fare le combinazioni più difficili. L’aveva già fatto con il suo primo film, Thank you for smoking, dove il protagonista lavorava per la lobby dei produttori di sigarette. Il diavolo, per come la vedono in Nord America.

E con il diavolo si è alleato per il suo secondo film: Diablo Cody, una soggettista e sceneggiatrice di meno di trent’anni. Bellissima, ex spogliarellista e divorziata, ha lavorato in una hot-line telefonica, è scrittrice di questo ed altri successi, ed ha fatto guadagnare l’Oscar al film Juno.
Ho detto che l’avrei buttata in politica, e lo faccio. L’America (gli Stati uniti, ma anche il Canada, in coproduzione come in questo film) stanno vivendo una crisi profonda: economica, industriale e politica. Ne vediamo i riflessi nell’11 settembre e nelle insensate guerre di Bush, ne scopriamo qualche particolare nei documentari di Michael Moore, e -grazie al cinema- ne vediamo la disperazione nei film di Clint Eastwood, George Clooney, dei fratelli Coen o di Jim Jarmush.
Ma la risposta, se una risposta ci sarà, non verrà dai grandi maestri del passato. Verrà, forse, da gente come Diablo Cody e Jason Reitman, abituati ad essere comunque “fuori”, e da una ragazzina sedicenne dalla parlantina spigliata e dal piglio deciso.

Perché Juno (la bravissima Ellen Page) non è la ragazzina fessa dei nostri “metri sopra il cielo”: decide di tenere e far nascere il bambino, ma per il bene suo e del pargolo lo consegna ad una coppia di ricchi dei quartieri alti, dopo aver ben controllato che tipi sono. Ride di se stessa, dice che in quelle condizioni a scuola la chiamano “balena spiaggiata”, però a scuola continua ad andarci fino alla fine, e si organizza la gestazione come una donna consapevole. È un film di donne, Juno, in cui i maschi fanno la meschina figura dei bambolotti di pezza: tutti i maschi che vi compaiono. Ma alcuni sono pericolosamente cretini (il futuro padre adottivo) , ed altri sono teneramente bambocci (il ragazzino padre). Ma il film non è “femminista”, come sarebbe probabilmente stato trent’anni fa (Speriamo che sia femmina, Monicelli, 1986). È che la ricostruzione toccherà presumibilmente più alle femmine e ai neri (Hillary Clinton o Obama?) che non ai maschi bianchi come quelli che hanno provocato il disastro. O magari spetterà alle ragazzine, alle signore bene dell’alta società, ai ragazzetti sportivi dell’Alce che Balla (Dancing Elk).
Non lo sappiamo. Però sappiamo che il film ha vinto al Festival di Roma (l'ultimo atto da sindaco del "clintoniano" Walter Veltroni). I giurati di Roma che l'hanno premiato lo hanno fatto insieme ai giurati dell’Oscar, e di altri 37 festival, in tutto il mondo.

Il poster americano ritrae Juno insieme al suo baby-fidanzato Bleeker, che si gratta la testa perplesso. Quello italiano mostra la protagonista da sola. In effetti, Juno è sempre sola quando fa le scelte fondamentali della sua giovane vita, e quindi il nostro manifesto è forse più pertinente. Ma poi ho ripensato a quella domanda di Juno: «Secondo te, è possibile che due persone stiano bene insieme per sempre, o almeno per un po’ di anni?». Ed ho capito che magari l’immagine americana è meno ingenua di quanto si potrebbe credere.
(Giovedì 20 Marzo 2008)
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