 Alla scoperta di una cinematografia Cinema poliziesco argentino La violenza fredda come connotazione
di Piero Nussio Il cinema argentino è conosciuto in Italia soprattutto per le pellicole d’autore, dai documentari socio-politici di Fernando Solanas ai film patagonici di Carlos Sorìn. Oppure per i film “al limite” di Lucrecia Martel o quelli più internazionali di Alejandro Agresti. Se non fosse stato per una rassegna organizzata dall’ambasciata argentina a Roma, nella sede di Via Veneto, non avrei potuto incontrare la cinematografia più rappresentativa di una nazione da noi così lontana, ma a noi così simile. La rassegna “Cinema poliziesco argentino”, che si tiene dai primi di gennaio ogni giovedì, è stata l’occasione per vedere dei film mai importati in Italia, e molto interessanti. Sono film di ottima fattura, come è giusto aspettarsi da un paese di grandi tradizioni culturali e cinematografiche, ma come non è sempre garantito nemmeno in Europa, e ancora meno in Italia: i thriller argentini mostrano una fattura tecnica elevata e costante, paragonabile più all’industria USA che ai malfermi risultati cui tanto cinema di genere ci ha abituato in Italia.

El custodio Il paragone con gli Stati Uniti, però, si ferma alla padronanza tecnica, perché come storie e contenuti il thriller argentino è totalmente diverso. Quasi abolito il finale “happy end”, questi film si avvicinano più alle regole del “noir” che non alle caratteristiche del film d’azione. Ma sono eretici anche rispetto ai canoni del “noir”, secondo molti aspetti e caratteristiche.
La loro connotazione principale è una fortissima violenza, anche tenendo conto che le tematiche del genere la richiedono per definizione. La violenza che contengono questi racconti non ha paragone con quella delle pellicole europee o statunitensi (che pure ne abbondano).

Un oso rojo Prendiamo ad esempio Un oso rojo (“Un orsetto rosso” di Adrián Caetano, 2002): già la situazione è violenta, con il protagonista che ha fatto una mezza strage per rapina, è stato messo in prigione, è stato abbandonato dalla moglie durante la prigionia, e infine esce di galera. Fin qui la premessa. Poi il “redento” torna alla libertà in un ambiente sociale di povertà, degrado e abbandono. Si attacca morbosamente alla figlia (cui regala un orsetto rosso di peluche) e, per la proprietà transitiva, all’ex moglie e al di lei convivente, poveraccio col vizio del gioco. In una situazione del genere non c’è spazio per un qualsiasi futuro positivo: Orso, il protagonista, non può che tornare dal vecchio padrino e affidarsi di nuovo alla sue “cure” per ottenere armi, denaro e rispetto. E per poi servirsi –delle armi soprattutto- per attuare la sua vendetta contro il padrino e, dal suo punto di vista, contro tutta la società civile.

Un oso rojo Qualcuno ha paragonato i film di Adrián Caetano allo stile di Takeshi Kitano e, in effetti, solo in certe punte iper-realiste del cinema orientale è possibile incontrare tali scoppi di violenza espressi in forma così anti-emotiva: Orso fa la sua strage –e in realtà tutta la sua disperata esistenza- senza che la minima espressione di umanità lo turbi. Non per carenza di recitazione dell’attore, ma per quella maschera di tragedia pilotata dal destino che risale all’antico teatro greco, e che oggi solo giapponesi e argentini sanno rappresentare.
Se l’Orsetto rosso è violento, la coppia di “gemelli” di “Plata quemada” è il festival del sanguinolento. Plata quemada (“Soldi bruciati” di Marcelo Piñeyro, 2000) è un kolossal della violenza e del “politicamente scorretto”: Nené e Angel, i protagonisti, sono una coppia di rapinatori omosessuali, che si incontrano nei sordidi bagni di Buenos Aires e muoiono baciandosi sotto il fuoco di tutta la polizia di Montevideo.

Plata quemada La solita rapina al furgone delle paghe, ma la musica cambia subito rispetto alle centinaia di scene simili già viste. C’è una ferocia “fredda” nelle uccisioni che non trova riscontro nei film del genere, e similitudine solo nei personaggi di Quentin Tarantino. E, come nei film del maestro USA, le situazioni sono sempre scontate ma con una violenza ed un mancanza di remore e di vie d’uscita che rende post-moderno tutto il racconto.
La situazione è senza via d’uscita: gli spettatori lo sanno, e i protagonisti lo intuiscono con il loro svolazzare impazzito come mosche in una scatola di vetro. Uno dei rapinatori è ferito, il compagno lo raccoglie e lo porta alla base, tutti devono fuggire per la reazione dei poliziotti e scappare in Uruguay. Lì devono nascondersi, in attesa di aiuto da un’altra gang, ma il tempo passa e la situazione peggiora ogni giorno.

Plata quemada Finirà dopo un’altro po’ di cadaveri, con un appartamento assalito da centinaia di poliziotti, e i due protagonisti uccisi in mezzo all’incendio dei soldi della rapina iniziale. Icona gay internazionale sono diventati i due corpi sudati, colpiti e bruciacchiati degli amanti maledetti colpiti dal fuoco dei poliziotti e da quello dell’incendio. Icona di violenza insensata e di moderno male di vivere, per tutti gli altri.
Se la violenza di “Plata quemada” è insensata, quella di “El custodio è sotterranea e abnorme. El custodio (“La guardia del corpo” di Rodrigo Moreno, 2006) è apparentemente il film meno violento e sanguinolento dei tre. Rubén è un personaggio taciturno e tranquillo, diverso dal galeotto Orso o dai sordidi Nené e Angel. È un professionista, un esperto riconosciuto, un ex militare, forse un eroe di qualche guerra persa. Tra il mondo del crimine e i tutori dell’ordine, Rubén non ha dubbi né remore: è un uomo d’ordine, un piccolo borghese che rispetta le gerarchie sociali e non vuol dispiacere ai suoi datori di lavoro. Il mondo che frequenta è, per obbligo professionale, quello del potere e della ricchezza; anche se quello che gli appartiene sta a un livello più basso, fra la gente che tira a campare e va a festeggiare il compleanno con la famiglia al ristorante cinese. Rubén però sembra muoversi bene fra questi due mondi: accetta le interminabili attese fuori della porta che il suo mestiere gli impone, guarda il paesaggio con lo sguardo indagatore di chi si aspetta una canna di fucile ad ogni isolato, osserva palazzi e parcheggi dall’alto e cerca di individuare ad ogni mossa un qualche rischio dal lato sicurezza. Veste un giubbetto anti-proiettile attillato, sa che in un eventuale attentato il primo piombo dovrà beccarselo lui, si muove guardingo ma anche annoiato, come uno che fa il mestiere –e lo sa fare- da un sacco di anni.

El custodio E sembra essere a suo agio anche quando il “suo” Ministro lo mette in imbarazzo con gli ospiti, oppure quando deve aspettarlo ai suoi incontri con l’amante. Sopporta tutto, anche troppo, come le alzate d’ingegno e i comportamenti scorretti della figlia del Ministro, che lui deve proteggere anche contro se stessa. La violenza –si direbbe- sta tutta nella testa dello spettatore, che è costretto a sopportare le angherie cui si sottopone il protagonista con imperturbabilità da film coreano. È dunque è una liberazione quando finalmente la violenza scoppia anche da parte di Rubén: pochi secondi, solo un rivolo di sangue, poca cosa. Ma è una violenza ancora più grande di quella delle altre pellicole, che pure erano intrise di sangue e di morti. Qui il morto è uno solo, ma basta e avanza. Rubén non avrà scampo, anche se il film non lo racconta. Si limita a farlo arrivare davanti all’oceano. Oltre non si può andare: Rubén lo sa, e sa quello che sta per succedergli. Quanta violenza conterrà. Anche se a noi è risparmiato di dovervi assistere.
(Martedì 19 Febbraio 2008)
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