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La pesantezza del corpo e la leggerezza dello sguardo

Lo scafandro e la farfalla

Un capolavoro capace di andare oltre la malattia…


di Roberto Leggio


All’inizio c’è una luce bianca, abbagliante. Poi dei volti indistinti, nebulosi in una atmosfera spettrale. Quindi una voce, che non ha suono, ma anima. Un appiglio interiore nel quale ci si può solo rifugiare e dialogare con se stessi. Perché il nuovo “io” che emerge è ancorato ad un letto d’ospedale. Dal quale non potrà rialzarsi mai più. A meno che, l’io “pensante”, non stacchi dal suo scafandro e si levi leggero come una farfalla. L’odissea umana e psicologica di Jean-Domique Bauby, dinamico e carismatico direttore di Elle Francia, inizia quando si risveglia dopo un ictus devastante che gli ha reso inattivo il sistema cerebrale. Era il 1995 e da quel giorno la sua vita cambiò radicalmente. Vittima della sindrome locked in (mentalmente vigile, ma prigioniero dentro il suo stesso corpo), riuscì a comunicare con l’esterno solo attraverso il battito della palpebra dell’occhio sinistro. E costretto a confrontarsi con quest’unica via, si costruì un universo interiore per mezzo della memoria e dell’immaginazione, che sfociò in un libro, cronaca della sua “sventura, dettato parola per parola grazie all’apprendimento di una “rivoluzionaria” tabella alfabetica.


Utilizzando la telecamera come un pennello, Julian Schnabel ha diretto senza pietismi un film rigoroso, potente, che va oltre la malattia. Uno sguardo “diverso” che scava nella storia di uomo racchiuso nel suo corpo (lo scafandro, appunto), morto “carnalmente” e rinato come occhio capace di guardare al mondo con un piglio “rabbioso” e delicato. Il suo volo “interiore”, diventa surreale poesia, per il modo in cui dialoga con i terapeuti, gli amici, la moglie, i figli, la segretaria che riportò per lui l’omonimo best seller che uscì solo dieci giorni prima della sua morte. Su questo piano Schnabel è bravissimo ad immergere lo spettatore (come il dramma in se stesso) in un claustrofobico abisso, così fantasioso da esternarsi del tutto dal cinema convenzionale, riuscendo a far emergere la sua “innaturale” anima pittorica. Un cinema che forse non è nemmeno cinema, ma solo sensibilità artistica, che ha trovato nella magistrale interpretazione di Mathieu Amalric, una forza dirompente, eterea, ironica e bastarda, lontana da qualsiasi convezione filmica, da far gridare al capolavoro. In tutti i sensi.

giudizio: * * * *



(Venerdì 15 Febbraio 2008)


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