 Un grande affresco sociale Cous cous Le vicissitudini per aprire un ristorante arabo
di Piero Nussio Vedendo Cous cous ho subito pensato ad un altro film nel quale una cena in un ristorante “etnico” era, come in questo, il tema principale. L’altro film è Big night di Stanley Tucci. In “Big night” l’ambiente erano gli Stati Uniti e il ristorante era italiano; il piatto più importante un appetitoso timballo. Bell’esercizio di tolleranza fare il confronto, giacchè in “Cous cous” (La graine et le mulet, Francia 2007) l’ambiente è il porto di Sète in Francia ed il ristorante è tunisino. Il piatto è, ovviamente il cuscus, a base di pesce –come dice il titolo originale-. Sono cefali, più facili da pescare proprio nell’ambiente dei porti. Di sicuro, per un palato italiano, era più invitante il timballo di Stanley Tucci e Tony Shalhoub. Già, perché quell’attore con l’aria di uno scontroso abruzzese che interpretava il cuoco Primo, autore dello spettacolare timballo, è l’americano del Wisconsin Tony Shalhoub che, come dice il suo cognome è di origine libanese (ed è poi divenuto famoso interpretando il complessato detective Monk).

Gli interpreti di “Cous cous” sono invece tunisini, come pure il regista, ma nel film –come nella vita, suppongo- si definiscono francesi, ed anzi se la prendono con gli immigrati che vengono a rubare loro il lavoro di demolizione navale, o con i turchi che trattano i rottami metallici nelle loro fonderie, e costringono i lavoratori francesi alla disoccupazione. Strano rapporto, quello della comunità tunisina (o forse più genericamente araba) con la Francia in cui vivono. Hanno un villaggio: qualcuno lo chiamerebbe ghetto, ma sembrano trovarcisi abbastanza bene, e le strutture architettoniche sono anonime ma non fatiscenti. Anzi, dicono: «Torna al villaggio, lì c’è tutto quello che serve, negozi, amici, parenti.» Perché l’altro luogo dove vivono i tunisini di Sète sono i caffè del vecchio porto, vicino al luogo di lavoro.

Il protagonista, l’anziano Slimane (Habib Boufares) rappresenta la comunità franco-tunisina in tutte le sue contraddizioni: al villaggio ha l’ex moglie Souad e una caterva di figli. Al caffè del porto ha l’attuale compagna Karima e la figlioccia Rym (Hafsia Herzi). Lavora come tutti gli altri arabi al cantiere navale ma, un po’ perché anziano un po’ perché il lavoro diminuisce e si delocalizza, si ritrova disoccupato. La sua vita gia spezzata e precaria ne riceve un altro duro colpo, che lo prova anche nel fisico (il massimo dell’onta per un arabo: è talmente giù di morale che non riesce ad avere rapporti sessuali con Karima). Ecco allora, facendo di necessità virtù, che dall’anziano operaio arabo risorge un creativo imprenditore francese: diventerà maitre aprendo un locale tipico su un battello ancorato sulla banchina del porto.

Il piatto forte sarà il cuscus di pesce, cucinato dall’ex moglie, e nel bar lavorerà tutta la sua famiglia d’origine. Ma le cose non sono semplici, anche dal punto di vista etnico: i figli di Slimane (franco-tunisini di prima generazione) si sono già sposati con francesi e russi, facendo del rito del cuscus domenicale una torre di babele. Fin dalla scelta della domenica come giorno festivo, normale per la Francia e le sue ex colonie del Maghreb, ma del tutto fuori luogo per dei mussulmani. In realtà le tradizioni si sono completamente confuse: restano vive solo quelle culinarie e le superstizioni (come il timore per “ain”, o malocchio). Per il resto, a cominciare dalle confuse situazioni di coppia, tutte le abitudini si sono mescolate, e la società postmoderna con le sue frette ed i suoi riti avvolge ormai tutti gli strati della popolazione. Slimane ha avuto lo scatto d’orgoglio, è diventato imprenditore, pur fra innumerevoli difficoltà. Finché si è trattato di restaurare il battello, e farne un accogliente ristorante, tutto è andato abbastanza liscio. È nella “big night” d’inaugurazione che l’impreparazione e la superficialità della sua famiglia provocherà il disastro: uno dei figli si dimentica di scaricare il pentolone di cuscus, un altro scompare con la macchina (ed il pentolone) così che la situazione diviene ingestibile.

È strano, in una cultura come quella araba, che è essenzialmente maschilista: i guai li combinano tutti i maschi, le soluzioni le attuano solo le femmine. Così sarà la figlioccia Rym a ingannare l’attesa dei clienti con una spettacolare danza del ventre, e sarà sua madre Karima a rimediare alla perdita del cuscus, cucinandone dell’altro. I due figli maschi hanno invece combinato il guaio, e lo stesso Slimane non sarà capace di porvi rimedio, perdendosi in un inseguimento di teppistelli.
Non c’è un messaggio alla fine del film. Anzi, il finale è aperto e interlocutorio. Di certo, sembra dirci il regista, non è con un banale “happy end” che si risolvono i problemi dell’incontro/scontro fra culture diverse, né tutta la frammentazione e la dispersione che oramai caratterizza le nostre civiltà, stanziali o migranti che siano.

Da parte nostra, come spettatori, forse avremmo apprezzato un montaggio un po’ più serrato, una durata più normale (invece delle due ore e mezza attuali) e una tecnica di ripresa un po’ meno saltellante. Tutti difetti che non cancellano, comunque, il valore notevole del film e dei suoi contenuti.
(Martedì 15 Gennaio 2008)
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