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 Nella valle di Elah Elah, oltre i contenuti Un lucido film, nelle sue immagini disperate
di Piero Nussio Oltre ai contenuti “ideologici”, di cui parla Paul Haggis nella nostra intervista, e Roberto Leggio nella sua recensione, c’è un alto aspetto importante nel film Nella valle di Elah, un aspetto più strettamente cinematografico su cui vale la pena soffermarsi un po’.
Per dirla in termini brevi e secchi, “Gli americani ricominciano a saper fare i film”. L’ubriacatura di effetti speciali, di thriller di sola azione, di inseguimenti e sparatorie, forse comincia a passare. Certo, una rondine non fa primavera, ed il film Nella valle di Elah non ha nemmeno avuto al botteghino USA il successo che meritava. Ma, a meglio vedere, le cose sono un po’ più interessanti –e piacevoli- di come appare a prima vista. C’è, innanzitutto, anche nel cinema USA una ben chiara –ma spesso dimenticata- distinzione fra i film di consumo ed una piccola ma attiva ed importante “minoranza rumorosa” che si dedica ad un cinema di contenuto, anche se non rinuncia alla spettacolarità e alla buona visibilità. Di questa “minoranza rumorosa” fa sicuramente parte Gorge Clooney, con i suoi film sul maccartismo (Good night and good look) o sulle guerre del petrolio (Syriana). Ma anche il “vecchio” Robert Redford, che dai tempi de I tre giorni del Condor arriva fino ad oggi con Lions for lambs, che è una specie di film-manifesto della “Nuova America democratica”, passando per la gestione del Sundance festival che tante perle ha regalato al buon cinema. A far loro compagnia, e strada, c’è da parecchio tempo un’altra faccia della Hollywood più classica: quel Clint Eastwood che deve a Sergio Leone se è divenuto un grande attore internazionale, ma deve solo alle sue capacità se è divenuto poi uno dei migliori registi al mondo (Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima, Million Dollar Baby.
E, dietro alle spalle di Clint Eastwood c’è, da molti anni, Paul Haggis. Anche lui, come Clint, ha cominciato con le serie televisive (è autore –fra molto altro- delle gesta di Chuck Norris, il Walker Texas Ranger). Nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, Paul Haggis ha due statuette Oscar, vinte entrambe per il film Crash. Dei tanti film di cui è responsabile, quella è l’opera che ci è piaciuta di meno, ma non siamo noi ad assegnare gli Awards. E, comunque, visto il seguito, forse i critici di Los Angeles hanno l’occhio più lungo del nostro… Noi l’Oscar glielo avremmo dato per Million dollar baby, oppure per Flags of Our Fathers, ma non ha molta importanza. E non è detto, che Lettere da Iwo Jima che ha la Nomination per il 2007, non prenda la statuetta. O che la meriti quest’ultima Nella valle di Elah, nonostante lo scarso successo al box-office.

Perchè l’America è strana, almeno ai nostri occhi europei. Robert Redford, Susan Sarandon e George Clooney sono schierati politicamente con i democratici, ma ciò non toglie che Tom Cruise, schierato coi repubblicani, accetti di partecipare a Lions for lambs, ed in maniera convinta. Paul Haggis è un regista anti-Bush, molto critico nei confronti della guerra in Iraq ("Odio Bush che mi costringe a fare film di denuncia..."), ma gli offrono di sceneggiare i film di James Bond (Casino Royale, ed anche il prossimo: “ma non hanno mai visto i film che scrivo?”). Li hanno visti, i tycoon di Hollywood, i film che scrive Paul Haggis, e proprio per questo lo chiamano. Noi europei siamo un po’ sconcertati, perché siamo abituati ad una più netta distinzione fra il genere commerciale (dai “cinepanettoni” ai “due metri sopra il cielo”) ed i film “impegnati” che si possono vedere solo fuori-orario. In America c’è –come dovunque- il cinema off. Ma c’è una tale tradizione di professionalità e di mestiere che nessuno (nemmeno John Cassavetes o Michael Moore) si dimentica che quello che sta girando è sempre e comunque un film, da far vedere in sala ad un pubblico pagante.

Se lo erano dimenticati, stranamente, proprio le grandi case di produzione, che erano cadute in una spirale di “sempre più colossale”, “sempre più violento e rumoroso”, “sempre più effetti speciali”, “sempre più virtuale e insensato”, “sempre più demenziale e bambinesco”. Questa ubriacatura –forse- sta finendo. L’insuccesso commerciale di La leggenda di Beowulf, dove Robert Zemekis aveva tentato di annullare anche gli attori in carne ed ossa, forse è il segnale che si era toccato il fondo del barile. Erano stati aboliti, col tempo, la logica e la consequenzialità. Si era risparmiato sui personaggi, sui caratteri psicologici e sulle trame. Erano state cancellate le pause e la credibilità. Si tentava di fare a meno anche degli attori.
Ora, con i film come Nella valle di Elah, si torna a fare del cinema. Gli attori recitano: stupendo Tommy Lee Jones, che ha maturato una carriera di centinaia di film in cui era lo sceriffo, in sergentaccio e il “man in black”. Le attrici interpretano: Susan Sarandon non ha bisogno di complimenti, perché –dai tempi di Thelma e Louise- recita anche col modo di camminare e di muoversi. Ma anche Charlize Theron si scorda per una volta di essere un gran bel pezzo di ragazza, ed usa i toni lividi e dimessi di una stanca funzionaria di polizia, con figlioletto a carico. Soprattutto, gli sceneggiatori scrivono una storia (sincera, tesa, credibile, coinvolgente, umana, vera). Il regista, una volta tanto, dirige un film. Il che significa che si documenta, che fa un casting come si deve, che la cittadina di Albuquerque e il New Mexico sono dei posti –e non delle “location”-, che Fort Rudd rimarrà nei ricordi. Nella valle di Elah è cinema mainstream, spettacolo hollywoodiano chiaro e teso.

Ha la struttura di un giallo, è un’investigazione quella che compie Charlize Theron, poliziotta sfiancata ma onesta. Contro di lei si muove il procuratore militare, con una sua specifica ed un po’ contorta onestà. Ancor di più, con le sue intuizioni di investigatore esperto e le sue disperazioni si padre si muove nel giallo Tommy Lee Jones, e sembra quasi di rivedere l’occhio privato di Philip Marlowe affrontare i bassifondi della città. Qui i bassifondi sono ancora più bassi, con la cintura di locali hard fatti apposta per sfogare le repressioni dei poveri soldatini di ritorno dal carnaio di Falluja. «Signora» si rivolge l’imperturbabile padre Tommy Lee jones ad una barista in topless. «Nel mio caso» risponde lei «è quasi offensivo chiamarmi “signora”». È l’inizio di un buon rapporto fra due esseri umani, e sono finezze di sceneggiatura. Finezze di questo genere rendono interessante lo svolgersi del film, e rendono credibile le interazioni ed i rapporti umani che vengono raccontati.
Proprio quei rapporti umani di cui il film denuncia la vanificazione, nella realtà. Il personaggio di Tommy Lee Jones è un reduce del Vietnam; Mike era suo figlio, con suo padre si scrivevano e telefonavano spesso. Ma quando il padre scopre perché il figlio si era guadagnato il soprannome di “Doc”, può solo andare a far sventolare al contrario la sua bandiera di combattimento. «È un segnale internazionale di pericolo» aveva detto ad un povero portoricano incontrato per strada «Significa che chiedi un aiuto disperato, che hai perso ogni speranza di salvarti».
(Giovedì 6 Dicembre 2007)
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