 Crowe contro Bale in western violento e psicologico Quel treno per Yuma Remake riveduto e corretto di una pietra miliare
di Roberto Leggio  Rifare una pietra miliare del cinema è sempre una sfida. Perché aggiornare e migliorare pellicole storiche, comporta scelte a dir poco grossolane. Quel treno per Yuma, filmone di attese clastrofobiche, nonché rapporto di nervi tra Van Heflin (il buono) e Glen Ford (il cattivo), racchiudeva quella moralità tipica degli anni ’50 (il buono seppur affascinato dal cattivo alla fine vince), dettata soprattutto dal quel codice Heynes che non implicava morti violente e sottotesti ambigui. Cinquanta anni dopo, John Mangold, riprende le redini della storia, riproponendo il “suo” Treno per Yuma, ampliandolo (dura 25 minuti di più) e aggiornandolo con un sottotesto di violenza e corruzione, tenendo conto le platee meno smaliziate di allora. Ne viene fuori un western vecchio stile con una sintassi grammatica moderna, capace di farsi apprezzare anche da chi non ha mai amato il genere. Come l’originale, il film si apre con un assalto ad una diligenza. Questa sequenza è di grande impatto visivo, con molta violenza e cinismo, e sembra debitrice al Sergio Leone di Giù La Testa, dove la macchina da presa si fissa sui cavalli in corsa mentre i desperados (che sembrano traslati direttamente da Per Qualche dollaro in più), fanno un massacro di uomini e di bottino, in un conflitto a fuoco che non ha niente da invidiare ad un attacco di guerra.

Tralasciando il tecnicismo, la rapina è osservata da Dan Evans (Christian Bale), allevatore strozzato dai debiti, ex fuciliere del “nord”, reso zoppo dal fuoco amico disprezzato dalla moglie e dal figlio quattordicenne, avulso con vigliaccheria apparente a qualsiasi violenza per il quieto vivere suo e della sua famiglia. L’incontro/scontro con il capobanda Ben Wade (Russell Crowe) di nero vestito, un po’ dandy, ma tanto spietato quanto carismatico e gentiluomo, è all’inizio solo verbale; ma si tramuta in “materiale”, quando gli si prospetta (per soldi) la possibilità di scortarlo al treno prigione che lo porterà al tribunale federale di Yuma dove sarà giustiziato. Naturalmente il viaggio (che nell’originale era solo narrato) fino alla stazione, si tramuta in un’odissea piena di scontri a fuoco con i sanguinari compagni decisi a liberarlo, e confronti psicologici a nervi scoperti, dove i due protagonisti si osservano arrivando ad ammirarsi a vicenda. Il contadino dimostrerà al figlio di non essere così codardo, mentre il fuorilegge verrà conquistato dalla sua retta morale, tanto da essere risolutivo, in un finale ben più realistico dell’originale. Su questo piano, il film di Mangold non è un vero e proprio remake, perché il suo scopo è quello di arrivare al cuore degli uomini, buoni o cattivi che siano. Il west torna a rivivere un po’ inedito (dopo la pietra tombale di Eastwood con Gli Spietati), dove non contano più i duelli al sole, ma i sentimenti dei protagonisti. E se le pistole devono in fondo fumare, è solo per un puntiglio. Drammaturgia inevitabile di quel west che avevamo dimenticato.
giudizio: * * * *

(Lunedì 22 Ottobre 2007)
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