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Il matrimonio di Tuya e La città proibita

Donne cinesi

Temi importanti e grande contenuto visivo


di Piero Nussio


La Cina è vicina? No, la Cina è abissalmente lontana dal nostro asfittico e noioso panorama cinematografico.
Bene ha fatto Quentin Tarantino ad affermarlo, ma probabilmente aveva negli occhi – a giusto confronto- non qualche scontato film americano, ma un capolavoro come La città proibita (Man cheng jin dai huang jin jia, 2006) del maestro cinese Zhang Yimou.


Yimou è tornato con questa pellicola ai film realistici, dopo i sogni deliranti di Hero (2002) e La foresta dei pugnali volanti (2004), e si cimenta stavolta con il racconto storico in costume.
Ma lo fa con lo stesso stile sontuoso che aveva applicato nei precedenti wuxia-pian cavallereschi, e con una potenza espressiva che nemmeno la Hollywood dei tempi d’oro ha mai raggiunto. Gli intrighi del palazzo imperiale hanno la stessa drammatica follia che ci ricorda la pazzia shakespeariana di Macbeth (senza per questo esserle in nulla debitrice). E nel contempo hanno il fasto e la ricchezza cromatica che può trovare paragoni solo in qualche film dell’altrettanto grande Akira Kurosawa.
E così, mentre il cinema dell’Italietta non trova miglior difensore che le battute piccate e risentite di Christian De Sica, intanto nel mondo una nazione che ancora ci ostiniamo a pensare arretrata è capace di produrre un capolavoro tecnico ed un sogno barocco come La città proibita.


Passeggiavo per Roma nel quartiere dei negozietti cinesi mentre avevo ancora negli occhi lo splendore dei colori del film di Yimou e la tremenda magnificenza della battaglia finale per il predominio sul Celeste Impero, e mi figuravo quando qualcuno dei nostri discendenti sarà costretto ad emigrare a Pechino o a Shangai per tentare di vendere ai cinesi qualche improbabile nostra produzione di bassa tecnologia.
Nel frattempo, mentre scorrevano –orgogliosamente bilingui- i titoli di coda de La città proibita, notavo che non c’era un solo nome occidentale in tutta l’imponente troupe di produzione: tutti nomi orientali per gli effetti speciali, la musica, il soggetto (un’opera teatrale di Yu Cao), la produzione, gli effetti visivi al computer, le magie cromatiche.


Sempre orgogliosamente in cinese (bisognerà abituarcisi…) scorrono i titoli di coda di un altro film, di tutt’altro tipo e contenuto. Avevo ancora negli occhi la bellezza appena un po’ appannata di Gong Li imperatrice madre quando la bellezza più rozza e infagottata di Nan Yu mi ha colpito, fra le arsure del deserto del Gobi, ne Il matrimonio di Tuya (Tuya de hun shi, 2006) del regista quasi esordiente Wang Quanan.
Wang Quanan col suo film d’esordio (“La storia di Ermei”, 2004) ha vinto il festival di Parigi, e con questo secondo film ha meritato l’Orso d’oro a Berlino. E finalmente una distribuzione in Italia, anche se in un periodo considerato poco “commerciale”. Però, nonostante ciò, si può dire con la rispondenza del pubblico una buona, dato che un film mongolo con attori e regista sconosciuti e diffuso in 25 copie ha già incassato quasi centomila euro nelle nostre sale.


Il matrimonio di Tuya è, forse, addirittura superiore al capolavoro di Yimou, proprio per la sua minimalità: pochi soldi, poche pretese, pochi attori. Ma il senso di vero che si respira in tutto il dipanarsi della vicenda è il vero valore della pellicola.
Tuya è una cinese della Mongolia interna, ossia di quella parte della popolazione di Gengis Khan che è sempre stata al di qua della Grande Muraglia. Il suo è un piccolo nucleo, col marito ed il figlioletto adolescente, che si guadagna una grama vita allevando un gregge di pecore fra i rigori del deserto del Gobi.
Millenni di pastori mongoli sono sopravvissuti così, in una pietraia inospitale dove spuntano a fatica cespuglietti che brucano le pecore, se qualcuno riesce a trasportar loro un po’ d’acqua da bere: è un deserto quasi senza vegetazione e senz’acqua, ma per di più è anche gelido, freddo e nevoso. Tant’è che si riconosce da un animale tipico, il cammello asiatico, diverso da quello arabo proprio per il lunghissimo pelo che lo difende dal freddo.
In questa “invidiabile” situazione, Tuya è costretta a sobbarcarsi una doppia fatica, perché il marito si è rotto la spina dorsale nel disperato tentativo di scavare un pozzo, ed è quindi rimasto paralizzato.


Con una scelta che i promotori del “Family day” forse non sapranno capire, e che il marito le propone, Tuya decide allora di divorziare e di cercarsi un altro marito, continuando però a tenersi in casa e mantenere il precedente sposo.
Ecco quindi le difficoltà che rendono il suo “matrimonio” degno di essere raccontato in un film, specie perché –ed è uno dei maggiori risultati del regista- le condizioni di vita ataviche dei pastori si incontrano e scontrano con le turbolenze di una nazione in disperato, inarrestabile sviluppo.
Accanto a pecore, cammelli e pietraie ci sono alberghi ultimo grido per la classe dei nuovi ricchi in ascesa, con tanto di servizio di “hostess” notturne. Il pastore che si vende il gregge per fare il camionista, attratto dalla modernizzazione, perde in un sol colpo il gregge, il camion e la moglie arrivista.
Il comunismo in salsa mongola prevede un ospizio pubblico ed accanto una casa di riposo privata per i parenti della “nomenklatura”, e soprattutto prevede che gli ospedali si paghino e chi non lo fa vi resti sequestrato.


La vita nella Cina di oggi è certamente dura, la perdita dei valori –quelli tradizionali e quelli rivoluzionari- si fa sentire con asprezza, ma come ci avevano fatto notare negli anni passati i personaggi di Zhang Yimou interpretati da Gong Li (La storia di Qiu Ju, 1992) e come ora ci mostra Wang Quanan con la sua Nan Yu, i caratteri dei cittadini sono forti e non si arrendono in nessuna circostanza.
I caratteri femminili, sembrano dirci entrambi gli autori e le loro attrici feticcio, sono la vera muraglia cui si sta appoggiando la società cinese per superare gli scogli di uno sviluppo economico e culturale che la sta portando molto avanti, ma che potrebbe rischiare di mandare tutta la nazione a schiantarsi sulle rocce.
C’è una scena ne Il matrimonio di Tuya, quando lei maltratta il marito che ha tentato il suicidio, in cui gli organizzatori del “Family day” potrebbero riconoscersi, insieme alle gerarchie religiose, ma insieme anche ai laici che vogliono affrontare le durezze della vita senza cercare scorciatoie e concedersi sconti.
E c’è molto da riscoprire, noi imbelli e degenerati figli di un benessere maldigerito e oramai quasi finito, dalla forza d’animo e dalla potenza espressiva con cui la Cina si sta ponendo nei confronti dell’occidente.


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Wu significa: arti marziali, guerra e militari. Xia si riferisce alle persone e si può tradurre come “cavaliere errante”. Wuxia sono quindi i racconti di cappa e spada all'orientale.

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(Venerdì 15 Giugno 2007)


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