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In sala grazie a "Self cinema"

L'estate di mio fratello

Un piccolo grande film


di Piero Nussio


Ci sono contemporaneamente in sala due film dal titolo che si assomiglia: Mio fratello è figlio unico e L’estate di mio fratello, ed a qualcuno è venuta la voglia di sottolineare che questa sarebbe “la stagione dei fratelli”, come se i due film fossero un una qualsiasi maniera paragonabili.

“Mio fratello è figlio unico” (Daniele Luchetti, 2007) è il tipico film cui la produzione italiana ci ha abituato negli ultimi anni: l’unico guizzo di inventività sta nel titolo (derivato peraltro da una canzone di Rino Gaetano), il resto è vuota superficialità e noia.
E dire che di materiale ce n’era in abbondanza, in un dopoguerra visto dalla parte dei perdenti ed in un oscillare in politica fra gli estremi. Ma sempre e comunque nell’ottica un po’ provinciale delle pianure del basso Lazio, con un ritardo culturale che -col passare degli anni- diviene sempre più significativo.
Un ritardo culturale di cui il film di Luchetti è degno esponente, che naviga comunque sulle pelle più superficiale delle cose.

“L’estate di mio fratello” (Pietro Reggiani, 2005) è differente, fin dalla particolarità dell’anno di realizzazione. La pellicola ha penato infatti molti anni nel limbo dei “film invisibili” prima di trovare una distribuzione molto particolare. Nel frattempo ha ricevuto tributi e successi al Film meeting di Bergamo ed al Tribeca film festival di New York, tanto per citare i due estremi geografici.
Poi è riuscito ad arrivare in sala grazie alla nascita di un’iniziativa del tutto particolare: Self cinema, adotta un film è l’idea di alcuni cinefili di pre-acquistare i biglietti del cinema in modo da dare agli esercenti un “minimo garantito” e di forzare così l’uscita in sala.

Certo, si sta parlando di un film un po’ particolare, interpretato da un –meraviglioso- attore di nove anni, e senza nessuno di quegli atout che, secondo la distribuzione becera, fanno il successo di un film in sala. Cioè, non ci sono scene di lesbismo, né sgommate di pneumatici, mancano gli attori alla Scamarcio che fanno impazzire le teen-agers, e le scene sanguinolente delle “colline che hanno gli occhi”...


In base a questo principio, non sarebbe mai dovuto uscire al pubblico nemmeno I quattrocento colpi (François Truffaut, 1959) o Il posto (Ermanno Olmi, 1961). E cito non a caso questi due registi, che possono essere considerati un po’ i “padri putativi” del regista Pietro Reggiani, l’uno per il rispetto con cui si entra nel mondo dei bambini e la cinematografia classica, l’altro per cura meticolosa applicata alle immagini ad alle ambientazioni e per una certa nordica ritrosia.

L’ambiente de “L’estate di mio fratello” è infatti il nordest, la città di Verona e le basse montagne delle prealpi venete, ma l’interesse non è per la società degli adulti (anche se qua e la se ne intuiscono vuoti, mancanze e difficoltà di comunicazione).
L’obiettivo è puntato su una strana, difficile età della vita, quella situazione dei “piccoli adulti”, fra i nove ed i quattordici anni, quando è finito il momento dell’infanzia -forse- spensierata e non è ancora cominciata la responsabilità, nemmeno quella del “motorino”, prima grande conquista e auto-affermazione.
Il bambino, a quegli anni, perde le coccole dell’infanzia (andare sul lettone quando c’è il temporale), ma ancora non ha acquisito quella socialità del gruppo (tutti insieme in bici o in motorino) che lo preparerà alla vita adulta.

E Sergio (Davide Veronese) è un bambino particolarmente chiuso e fantasioso, come James Stewart (Harvey, 1950) vive in un “universo parallelo” popolato di amici e realtà immaginarie.
Nel frattempo, rifiuta o lega poco con i bambini reali, ed ha grosse difficoltà a condividere con loro i suoi giocattoli.


L’occasione, l’eventualità di avere un fratello, lo colpisce quindi con particolare violenza.
Ed altrettanto violenta è la risposta –sempre fantastica- di Sergio: l’intrusione di un fratello fra le sue cose lo preoccupa fino al punto di riservargli un supplizio sulla graticola –come santo Stefano- o una caduta dal baratro di una collina.

Poi, propiziata anche dal contatto con altri bambini e dalla percezione di qualcosa di cambiato nel rapporto reciproco fra i genitori, avverrà impercettibilmente una mutazione nel pensare di Sergio.
Lentamente l’egoismo solipsistico in cui viveva inizierà a rompersi e Sergio inizierà ad apprezzare la presenza e la complicità del fratello, fino a giungere all’espiazione reale del supplizio che gli aveva inflitto con la fantasia.
La graticola di santo Stefano diviene il luogo in cui Sergio accetta il sacrificio del suo sangue (i giocattoli, il ruolo in famiglia) in favore del fratello che dovrebbe venirgli.

Il film di Reggiani non è certo perfetto (qualche limite tecnico, un po’ troppa carne al fuoco, un finale poco significativo), ma il suo mix di attenzione e di piccolo umorismo è particolarmente riuscito, e la gradevolezza della visione è assicurata, oltrechè la significatività dei contenuti.

E poi, lasciatemi fare un’affermazione netta -una rivendicazione-, nella mia qualità di “pantera grigia”. Con grande preoccupazione dell’INPS, la società si invecchia e noi “maggiorenni” cominciamo ad essere una quota significativa di mercato.
Per di più con abbastanza tempo libero a disposizione.
Allora, dateci uno di questi film in sala per ognuno delle demenzialità giovanilistiche (“Tre metri sopra il cielo” o “Le colline hanno gli occhi 2”) che proiettate per il vostro pubblico abituale di riferimento.



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(Martedì 22 Maggio 2007)


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