.


Recensioni Festival Eventi Sipario Home video Ciak si gira Interviste CineGossip Gadget e bazar Archivio
lato sinistro centro

Home Archivio      Stampa questa pagina  Invia questa pagina  Zoom: apri la pagina in una nuova finestra


Incontro con il maestro

Dino Risi

In occasione del restauro de "Il segno di Venere"


di Roberto Leggio


ROMA - Novant’anni e… sentirli. “Ringrazio tutti per essere qui, io invece ringrazio i medici che mi hanno permesso di essere con voi!” Con queste parole Dino Risi, grande padre del cinema italiano, ha spiegato con molta ironia la sua presenza alla riedizione del suo “Il Segno di Venere”, diciassettesimo film restaurato dall’Associazione Philip Morris. Il grande regista italiano, con gli occhiali e neri e una gran voglia di spiazzare la stampa invitata per l’occasione, ha fatto le orecchie da mercante alle polemiche scatenate da Alessandra Giusti nei confronti del rappresentante della Philip Morris, che ha annunciato di abbandonare il progetto del cinema restaurato. “Il motore della nostra opera è andata letteralmente in fumo”. Ha dichiarato ironicamente la Giusti, sottolineando che dopo diciassette anni e diciassette film restaurati, il progetto cinema della Philip Morris, ha tirato definitivamente i cordini della borsa, per orientarsi verso altri progetti filantropici. Un batti e ribatti che per poco rischiava di oscurare l’omaggio che il sindacato giornalisti aveva preparato per Risi, nel giorno della consegna di un tardivo Nastro d’Argento alla Carriera. Un riconoscimento atteso per cinquanta e passa anni, arrivato nelle mani giuste, in un momento sbagliato. Forse, però, giunto a premiare la nostalgia per quel cinema italiano, che spesso veniva portato a termine con mezzi avventurosi, ma concepito e recitato da attori eccezionali. “Ho aspettato questo premio per oltre cinquanta anni” ha detto un emozionantissimo Risi, al momento della consegna “Non ho mai capito perché mi abbiamo dimenticato. Ma credo che il suo arrivo oggi, sia un segno della mia sopravvivenza”. Una chiosa che ha generato un caloroso applauso, necessario, a sostegno al grande cineasta. Così la giornata in suo onore ha potuto andare avanti senza più spiacevoli intoppi. “Il segno di Venere”, il terzo film, di quella che sarà la una lunga carriera, è un film corale, scritto ed interpretato da Franca Valeri, con il sostegno di Sophia Loren, Peppino De Filippo, Alberto Sordi, Raf Vallone e Vittorio De Sica. La storia è quella di due cugine (una del nord ed una del sud), che cercano l’amore della loro vita in una Roma piena di sogni, nell’Italia del dopoguerra.. Un film che già allora mostrava, la canagliesca (e romantica) voglia di amare in un paese che stava imparando a diventare grande. Un affresco capace di far ridere ma anche di far pensare, grazie al suo finale, forse melanconico, molto realistico ed in qualche modo triste. “Il segno di Venere” è con le sue immagini, un piccolo capolavoro, probabilmente l’opera che segna lo spartiacque tra il neorealismo e la commedia all’italiana. Ne parliamo volentieri con il maestro Risi.


Cosa significa per lei rivedere questo film dopo cinquantatre anni?
Lo trovo ancora un film attuale. Un’opera che mi fa ringiovanire. E’ stata una storia che ho accettato di fare perché a monte c’era un’ottima sceneggiatura. Mi intrigava lavorare con Franca Valeri, che milanese come me, vedeva con occhio più critico la società romana dell’epoca. E’ davvero un affresco dei tempi… ed è spiacevole vedere che non è cambiato niente. Mentre la riflessione sulla gioventù in cerca di emancipazione, è invece rimasta la stessa.

Cosa si è perso di quel periodo?
Quell’ingenuità che ci rendeva più spontanei… e più creativi. Il film uscì nel 1955, in un periodo molto fervido del cinema italiano. Tutto era più facile, con produttori che si esponevano in prima persona per portare a termine un film.

Quindi lei è d’accordo che il cinema italiano di oggi è malato…
Il cinema odierno è cambiato, anche per colpa di quel mostro nero che è la televisione. E’ merito suo se ha formato attori che non sono all’altezza di quelli di ieri. Forse se televisione sapesse fare un salto di qualità, saper guardare avanti, aiuterebbe il cinema a non morire mai.

“Il segno di Venere”, che posto trova nella sua cinematografia?
Prima di questo avevo fatto altri due film. Uno si chiamava “Il Viale della Speranza”, un titolo che ironizzava “Viale del Tramonto” di Billy Wilder. Parlavo di giovani attori che ogni giorno prendevano un autobus azzurro che da Piazza S. Silvestro portava a Cinecittà. Era il mio modo per raccontare il mondo dei giovani. Le loro speranze in un mondo che stava cambiando velocemente.

In questo periodo della sua vita, che cos’è oggi il cinema?
Il cinema è stata la mia vita. Ho scelto di fare questo mestiere dopo tre mesi di lavoro come psichiatra al manicomio di Voghera. Avevo lavoricchiato nel cinema come assistente di Soldati e avevo collaborato con Lattuada. Avevo diretto un cortometraggio, che costato 200.000 era piaciuto molto. Ponti lo vide e mi offrì due milioni per fare un lungometraggio. Accettai subito e decisi di lasciare la professione di medico e dedicarmi totalmente al cinema.

Monicelli è suo coetaneo e ha ancora la forza di fare film. Non vorrebbe tornare dietro la macchina da presa?
No. La vecchiaia non è una cosa bella e romantica come pensate. E’ brutta, ed è un punto d’arrivo… la pace dei sensi. Fare cinema alla mia età sarebbe una follia. Il cinema è stata la mia vacanza. Non posso più corteggiare le ragazze, non posso più divertirmi. Per quanto riguarda Monicelli. Lui è un diavolo, un toscanaccio… uno tosto. Lui è più vecchio, è più incosciente, ha più forza e soprattutto è più coraggioso di me…










(Lunedì 16 Aprile 2007)


Home Archivio      Stampa questa pagina  Invia questa pagina  Zoom: apri la pagina in una nuova finestra

lato destro