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 "Mio fratello è figlio unico" Daniele Luchetti Il regista parla del suo ultimo film
di Roberto Leggio  Roma – Un racconto popolare srotolato attraverso le avventure di due fratelli, divisi da ideologie politiche, che amano la stessa donna in quella provincia italiana degli anni 60 e ’70 che ormai non esiste più. Una stagione fatta di fughe, di ritorni, di botte e di grandi passioni in un paese in cerca di identità. “Mio Fratello è Figlio Unico”, il nuovo film di Daniele Luchetti, presentato oggi in anteprima alla stampa, è un amarcord lucido e tagliente su quel periodo storico, sospeso tra movimenti popolari e abbozzi di terrorismo. Una storia di persone che parlano di politica e quindi un film che non prende posizione ma che vorrebbe spingersi oltre. Una storia di passioni forti, con grande prove d’attore di Riccardo Scamarcio e Elio Germano, nei panni dei due fratelli diversi, ma non troppo e la breve apparizione di Luca Zingaretti, finalmente in un ruolo a lui congegnale. Daniele Luchetti, torma al cinema d’autore, dopo la scivolata di Dillo con parole mie, dirigendo un film leggero (e pesante allo stesso tempo) con il disincanto della migliore commedia italiana. Ma non lasciamoci ingannare, il film tratto liberamente da “Il fascicomuncista” di Antonio Pennacchi è essenzialmente uno sguardo appassionato e quel periodo storico che movendosi veloce ha posto le basi all’Italia odierna. Quella dalla quale non si torna più indietro, perché eternamente spaccata in due. Proprio come i due fratelli…
“Mio fratello è figlio unico”, ma a chi si rifereisce? Ad entrambi i fratelli, in quanto ognuno ha una sua unicità… un senso di esclusione all’interno della famiglia. Manrico è comunista, Accio è fascista, due personaggi contrapposti e allo stesso tempo speculari.
Le sono donne sono fondamentali al racconto, ma non entrano mai in contrasto con i maschi… E’ una scelta obbligata ottimizzata per l’economia della storia. Non vengono quasi mai contemplate, perché all’epoca erano i maschi che trainavano la famiglia. Erano i punti fermi su cui ruotavano tutte le decisioni. La madre, la figlia, la ragazza di Manrico, vedono svolgersi le vicende dei due ragazzi, interagendo e magari soffrire per loro, ma non si oppongono alle loro decisioni. Anche se sbagliate…
Perché nel film non c’è la canzone di Rino Gaetano, che oltre essere lo specchio di quell’epoca, porta anche lo stesso titolo? Non l’ho voluta utilizzare perché era troppo didascalica. Troppo immersa in quel periodo e rischiava di essere ideologicamente di parte. Perciò non trovava posto nell’anima del film.

Il film parla di politica, ma sembra non volerne parlare… Perché tutto parte dal tono scherzoso del libro, che essendo autobiografico ha quella autoironia che da sempre delineano le storie personali. Mi intrigava approfondire questo punto di vista, così la storia si è trasformata una biografia italiana. Di un pezzo di Italia fatta di esclusi, di fratelli minori, di ragazzini di cui nessuno aveva il tempo di occuparsi. Di una generazione che ha preso intrapreso strade diverse, obbedendo a parole d’ordine efficaci e superficiali, solo perché erano alla ricerca di una identità. In questa luce il film non è politico. E’ un film di due anime che si amano, soffrono, ridono e fanno anche politica. Di persone che prendono posizione. L’elemento umano, affettivo ed emotivo è la giusta chiave di lettura di questa storia.
Il finale sembra sospeso, magari perché era difficile da terminare? La cosa curiosa è che, assieme agli sceneggiatori, ho lavorato molto sul finale. Il libro termina che il protagonista torna in seminario e si confessa dei suoi peccati. Si libera dal suo “essere”. Ma in questo modo il film sarebbe sembrato incompleto. Nella mia storia c’era il grande desiderio di sostituirsi al fratello, e facendolo ci sarebbe stata una presa di coscienza. Può trattarsi anche di un finale ambiguo, ma il personaggio di Accio in qualche modo ritrova se stesso. Una vera liberazione, perché la vita va e deve andare avanti.
Lo considera un film diverso dai suoi? Tutti film hanno un’anima e vengono concepiti attraverso dei ragionamenti differenti. Per questo film mi sono imposto di lavorare in maniera diversa. Non ho provato quasi mai. Trovavo un po’ pesante cercare di delineare un fascista solo come un gran figlio di puttana. Quindi ho lasciato la possibilità agli attori di improvvisare, senza però fargli prendere la mano. Spiegavo loro cosa volevo in quella data scena e mi mettevo a girare. Ho smontato quella precisione che di solito si respira sul set, dando al film quella freschezza e spontaneità che andavo cercando. Il film è nato attraverso queste correnti emotive nascoste.
“Mio fratello è figlio unico” si srotola attraverso 15 anni della storia italiana, dai primi anni ’60, all’inizio dei settanta. Quanto ha pesato lo spettro della “Meglio Gioventù”? Non ho mai pensato al quel film. Lì c’era un dramma borghese che trovava il suo punto di svolta ai tempi del terrorismo. Qui invece c’è un romanzo popolare che ipoteticamente finisce nel 1973, un po’ prima degli anni di piombo. Parla dei primi fuochi di rivoluzione, di un Italia che deve trovare un’identità. Seguiamo le tendenze politiche di uno o dell’altro personaggio, arrivati fin li solo per una passione. Adesso le cose sono molto diverse, tutto è molto più omologato. Lo scollamento della classe politica con la popolazione è un riflesso di questo ragionamento.
A conti fatti, cosa prova nei confronti di quel periodo? Provo molta nostalgia per quel periodo storico, forse perché all’epoca ero troppo piccolo per potermelo ricordare. Non nego che avrei voluto vivere in quell’epoca. La voglia di rinnovamento, le contraddizioni, i sogni, le utopie di un paese che cercava di uscire da un impasse. Cercare un’identità, cavalcare, un rinnovamento. Adesso non sarebbe più possibile…
(Venerdì 13 Aprile 2007)
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