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 "L'arco" ed i film dell'Oriente Il mondo degli altri La Corea è lontana, ma dobbiamo capirla
di Piero Nussio È vedendo alcuni film, che provengono da altre culture, che ci si rende conto di come li nostro “paraocchi occidentale” agisca e ci accechi costantemente. Il mondo ci appare grande e variegato, ma la nostra cultura si rifiuta ostinatamente di farci intendere quanto c’è da intendere e capire sul mondo degli altri.
Riusciamo a vedere e capire un film europeo (bello sforzo, abbiamo abolito cambi e confini...), e per lunga abitudine i film americani. Già l’America del sud ci sembra un po’ estranea, e l’Australia, per bianchi che siano, è ai confini più remoti. I film africani latitano sul nostro mercato, e comunque è facile, rispetto alla loro arretratezza, assumere l’atteggiamento paternalistico del “buana bianco”.

Dove i conti non tornano più è con il cinema del vicino Oriente, ad esempio, che in epoca di fondamentalismi islamici, sarebbe importante capire ed interpretare. Come il cinema iraniano di Mohsen Makhmalbaf (“Pane e fiore”, “Il silenzio”, “Viaggio a Kandahar”) intriso di poesia, o con quello problematico e pirandelliano di Abbas Kiarostami (“Close up”, “Dov’è la casa del mio amico?”, “E la vita continua”, “Sotto gli ulivi”, “Il sapore della ciliegia”, “Il vento ci porterà via”, “Dieci”). Difficile coniugare la soluzione politica in cui si trova ora l’Iran e la rozzezza dei suoi attuali governanti, con la finezza psicologica di Kiarostami e del suo cinema nel cinema. Ma anche la condizione femminile, quella che esempio traspare in “Dieci”, non è allo stesso livello di sottosviluppo e negazione come si ascolta nei discorsi dei loro leader religiosi.
Il mondo non è fatto solo di talebani e crociati, per fortuna. Ed il cinema è lì apposta per mostrarcelo. Oppure per dirci chi siano e da dove davvero vengano i talebani, come il fondamentale film pakistano Acque silenziose.

Ancora più difficile da classificare e da interpretare culturalmente è il cinema dell’estremo oriente. Certo non lo si può confondere con un qualunque “terzo mondo”, sia per la rilevanza economica delle nazioni che lo compongono (India, Cina, Giappone, Corea, ecc.) che per la raffinata tecnica cinematografica e la ricchezza culturale che lo caratterizzano. Le nazioni dell’Oriente producono una gran quantità di pellicole, e ne consumano in patria più di quanto si faccia in Europa, sia attraverso i circuiti cinematografici che quelli televisivi. C’è un’ampia produzione popolare proveniente da tutta l’Asia (ad esempio, il Bollywood indiano, i Manga o cartoni animati giapponesi, il Wu xia cinese), ma non mancano, insieme a questa cinematografia di massa, le punte di notevole eccellenza.
Il nome di Akira Kurosawa (“Rashomon”, “I sette samurai”, “Dodes'ka-den”, “Dersu Uzala”, “Kagemusha”, “Ran”, “Sogni”, “Rapsodia in agosto”) ha fatto conoscere agli europei, fin dalla partecipazione alla Mostra di Venezia degli anni ’50, l’importanza del cinema giapponese d’autore. E basta il nome di Takeshi Kitano per ricordarci che l’eccellenza giapponese continua indisturbata. Poi è arrivata la Cina di Zhang Yimou (Sorgo rosso”, “Lanterne rosse”, “La storia di Qiu Ju”, “Non uno di meno”, “Hero”, “La foresta dei pugnali volanti”, “Mille miglia lontano”) a mostrarci che la nazione sttava diventando un gigante economico e culturale, non più solo demografico. E per dimostrare che anche in Cina la tradizione prosegue, basterà citare l’opera maestra di Wong Kar Wai

Forse il cinema asiatico più difficile da capire, classificare ed interpretare è quello coreano, ed in questo l’opera di Kim ki duk. I suoi film (“L’isola”, “Primavera, estate...”, “La samaritana”, “Ferro 3”, “L’arco”, “Time”) sono un misto di poesia intimistica e di violenza estrema, di sentimenti articolati e profondi espressi con le immagini ed il montaggio, ma quasi senza parole. Tempi lunghi, riflessivi, colonne musicali insinuanti e dolci, storie al limite del credibile. Non perchè il regista si dedichi agli effetti speciali, a far volare le persone o a frammentare i tempi e le narrazioni. Anzi, i racconti di Kim ki duk sono semplici e piani, le verità non hanno le tante sfaccettature di Rashomon né la complessità abituale in Kiarostami. Nemmeno i personaggi sono così violenti ed estremi come nel cinema di Kitano, che è stato accostato -e non a caso- a quello di Quentin Tarantino.
Eppure la situazioni che mette in scena il coreano non sembrano affatto tratte dalla vita comune. La Corea del sud che mi immagino – e che vedo in TV – è quella delle automobili Daewoo, del capitalismo sfrenato e della produzione intensiva, una specie dell’Italia del “miracolo economico” degli anni ’60. Ed i personaggi di Kim ki duk, invece, vanno ad abitare case vuote (“Ferro 3”), o sono monaci di laghetti di montagna (“Primavera, estate...”), oppure marinai isolati e forse un po’ perversi (“L’arco”). Proprio L’arco merita un approfondimento, perchè emblematico di tutta la produzione del regista. Uno strano uomo d’acqua vive su un barcone che ricorda da vicino L’Atalante di Jean Vigo, ma lui se ne sta fermo, ormeggiato in un tratto di mare aperto, invece che percorrere i canali e vivere le città, come faceva il francese. Lui campa la vita affittando ai pescatori d’altura le murate della sua piccola isola galleggiante ed ha, come unico rapporto con gli essere viventi, una ragazzina che vive segregata al largo, e che forse ha rapito ai legittimi genitori. Maneggia l’arco da maestro, e se ne serve per tenere a bada i clienti, per eseguire dei pericolosi oroscopi personali, e per trarne melodie sinuose dopo averla tramutata in strumento musicale. La situazione è arcaica, e quasi mitologica. Sembrerebbe quasi la versione marinara dei favolosi pastori-poeti dell’Arcadia, di cui il nostro Settecento colto ha riempito le pagine. Quando poi il vecchio estrae i suoi presagi tirando frecce ad un’immagine di Buddha dipinta sulla fiancata e schivando la ragazzina che va in altalena, ho subito pesato ad un àugure etrusco che trae dai fulmini i suoi vaticini, ed interroga il volere nascosto dei fatali “dèi consenti”.

Ma la barca va a motore, i pescatori usano telefoni cellulari, macchine fotografiche digitali e ascoltano nei walkman i CD di musica rock. A prima vista questo stona con il ritmo della storia: Buddha, la pace del barcone, il marinaio musicista e filosofo, i ritmi primordiali. Che c’entra questa intromissione di tecnologia occidentale? Esattamente qui è l’errore: quella tecnologia è orientale. Il CD è stato inventato dai giapponesi, come pure il Walkman, i cellulari e le macchine fotografiche digitali sono prodotti orientali, e forse la fabbrica di produzione si trova a due passi dalla costa dove è ancorato il barcone. La Corea è uno strano paese: è uno dei maggiori produttori di tecnologia moderna, dalle automobili agli apparati elettronici d’ogni genere, ma è anche la nazione che ha sulla bandiera il simbolo dell’equilibrio fra yin e yang, e le principali configurazioni de “i ching”, il codice dei mutamenti. Le storie che il suo cinema ci racconta sono l’esatto opposto del cinema commerciale americano: lì i ritmi sono frenetici, le parole – e le parolacce – sono a mitraglia, le azioni sono rapide ed il più delle volte senza motivazione e senza significato. Nelle pellicole del coreano vige la massima lentezza, si parla poco e si agisce con estrema lentezza, il più delle volte in forma rituale, ma i significati e le motivazioni di ogni azione sono pieni di contenuti e di rigore logico.
Non per questo, però, i mondi sono idilliaci. Il mito del “buon selvaggio” è un’altra delle sciocchezze eurocentriche, e comunque gli orientali sono tutto meno che selvaggi, e nemmeno tanto buoni. La loro cultura è di alcune migliaia di anni precedente la nostra (cioe: loro erano civili ed organizzati quando noi stavamo ancora nelle capanne di fango), la loro tecnologia è quella che noi pensiamo sia la nostra (loro inventano e producono, noi ci limitiamo a comprare le loro cose nei nostri centri commerciali). Le storie di Kim ki duk soo complesse, e spesso inespresse. Prendiamo ancora “L’arco” ad esempio: probabilmente il rapporto fra il vecchio marinaio e la bambina è abbastanza onesto, come il gioco serale delle mani ci lascia pensare, e come i reciproci lavacri ribadiscono, e l’intenzione dell’uomo è probabilmente quella del matrimonio d’amore. Ma la segregazione è altrettanto evidente e violenta. Così come la disperazione del vecchio, che tenta il suicidio quando la ragazza lo abbandona. E la donna, se pure fosse stata rapita, nonostante sia stata tenuta fuori dal mondo e sia risoluta ad andarsene, non se la sente di far altro che tornare indietro ad impedire il suicidio ed acconsentire alle nozze. Nozze rituali non consumate, perchè in realtà il marinaio preferisce... Insomma, raccontare la trama de “L’arco” significa inanellare una serie quasi infinita di frasi ipotetiche, di condizionali e congiuntivi. E nello stesso tempo significa rendersi conto che ognuna delle condizioni narrative è strettamente causata dal fato e dalla coerenza logica con le premesse, un po’ come era abitudine delle tragedie greche. E tuttavia le storie di Kim ki duk, pur al limite della credibilità, non sono mai tragedie, ed anzi si risolvono con una sorta di stravolto “lieto fine”, incongruo ed irrisolto come peraltro le premesse, perchè nel suo mondo la logica e la consequenzialità regnano per tutto il corpo della narrazione, salvo la situazione iniziale e la soluzione finale. Come se l’iniziare ed il terminare di un film rompessero quell’equilibrio e quella staticità che il simbolo dello yin-yang e i monogrammi de i ching sembrano garantire a tutti i cittadini coreani.
Il giorno non lontano in cui la potenza economica, scientifica e produttiva dell’Oriente diventerà anche prevalenza culturale e politica, e noi diverremo il loro “terzo mondo”, allora forse perderemo la nostra spocchia e cominceremo a notare la nostra miseria culturale nei confronti della loro pienezza di contenuti. Nell’attesa teniamoci strette le nostre “veline” e il gossip dei potenti...
(Giovedì 12 Aprile 2007)
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