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Due modi di intendere il cinema alla Festa di Roma

Bellocchio e Bertolucci a confronto

Quelli che vanno e quelli che restano


di Roberto Leggio


Roma – Capita che in una notte di pioggia intensa, ci si trovi ad assistere a due piccoli film di due grandi registi. E capita a volte che l’essenza delle immagini siano uno spunto per parlare di grande cinema. Così succede che mettere assieme Sorelle di Marco Bellocchio e Historie d’Eau di Bernardo Bertolucci, generi un risultato perfetto per un’(im)possibile equazione tra cinema e mestiere. Ma anche di mettere in luce le diversificazioni di due cinematografie equidistanti. Bellocchio sembra essere appeso ad un vissuto che difficilmente si staccherà dalle sue radici; mentre Bertolucci sembra rifarsi ad un presente (ma anche di futuro) legato alla spiritualità. Sorelle, ad esempio è il compendio di tre episodi di una stessa storia, girati in tre anni diversi (1999, 2004 e 2005). Raccontano di una bambina Elena nella sua crescita, di sua madre Sara che vorrebbe fare l’attrice, e di suo fratello Giorgio, un uomo sempre alla ricerca di un suo centro. Negli anni si incontrano sporadicamente a Bobbio, nel piacentino, in casa delle vecchie zie. Ognuno vorrebbe scappare dal quel sicuro ventre familiare, ma nessuno trova il coraggio di farlo. Un giorno però accade qualcosa che imporrà in Sara e Giorgio una scelta definitiva. Bellocchio incide molto sul dilemma tra l’andare od il restare, mentre al contrario Bertolucci è certo che il restare è fonte di una innegabile saggezza. Historie d’Eau, nel breve arco di dieci minuti, mette sotto il microscopio la vita (passata, presente e futura) di un giovane clandestino indiano, che mandato a cercare dell’acqua da un vecchio suonatore di flauto, si ritrova prima amante, poi sposo, poi padre di famiglia, prima di tornare dal vecchio, che dopo vent’anni lo sta ancora aspettando. Il senso è chiaro: solo chi resta può concedersi di modificare il tempo e gli eventi. L’andare ed il restare.


E su questo adagio, i due maestri del cinema italiano, hanno dato la loro personale interpretazione, confrontandosi a vicenda sulle differenze sostanziali del lavoro di entrambi. Bertolucci, a proposito, a subito messo in chiaro che “ogni volta che ho fatto un film avrei voluto essere qualcun altro. Mentre Bellocchio è sempre stato violentemente se stesso. E anche in questo film è profondamente lui. Questo è alla base delle differenze sostanziali tra noi due”. Di rimando Bellocchio ha chiosato “Ho sempre cercato di raccontarmi nella maniera meno dolce possibile, tentando di dire qualcosa di personale… E non so se sia un difetto: pensare una cosa e farne invece un’altra”. Il filo conduttore tra i due (che si ritrovano per la prima volta assieme su un palco di un Festival) parte proprio da questi diversi punti di vista. Entrambi però ricordano il loro primo incontro, quando nel 1962 ancora ragazzi, parlavano del loro futuro da giovani registi. Bertolucci stava per iniziare a girare da li a poco il suo primo film La comare secca, mentre Bellocchio cercava di smorzargli l’entusiasmo, non essendo molto convinto del suo debutto. Finirono per parlare del cinema che gli stava influenzando: Nouvelle Vague francese per Bertolucci, Free Cinema britannico per Bellocchio. Le differenze di stili nascono proprio da quell’imprinting. “I Pugni in tasca – continua Bertolucci – mi ha colpito allo stomaco. E ricordo che mi venne da dire: Accidenti, anche da Piacenza arriva qualcosa di buono. Non era un cattiveria, ma io sono di Parma, dove l’antagonismo è forte.” Ma si capisce che lo scherzo nasconde un profondo rispetto. “Infatti, I Pugni in Tasca con il mio Prima della Rivoluzione, sono due film che si possono leggere come uno solo. La Rivoluzione prende spunto da una specie di mia autobiografia, mentre il suo mette in luce la sintassi di tutti i suoi lavori successivi. E credo che in fin dei conti, quel film, anche se non mi ha influenzato mi ha lasciato dentro di me delle tracce profonde”.



(Venerdì 20 Ottobre 2006)


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