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Tre film argentini

Bombòn e la dignità argentina

A coloro che hanno resistito, con dignità e coraggio


di Piero Nussio


Ci sono un sacco di film argentini in sala a Roma, in questi afosi giorni di fine giugno.
E mentre il famigerato “Chiusura estiva” si avvia ad essere (come tutti gli anni) la pellicola più programmata del periodo, mentre le arene culturali dell’Estate Romana si preparano al consueto “ripassino” della stagione cinematografica appena conclusa, si apre un periodo di piccoli spazi interstiziali in cui le cinematografie più piccole e neglette trovano un breve istante di gloria.

Tre film argentini contemporaneamente in programmazione a Roma significa quasi un festival, un’insperata bonanza per chi ama esplorare il cinema dell’altra parte del mondo.
Strana parte si mondo: piena di cognomi italiani e di facce gallesi, con la vivacità dei popoli latini e la tristezza composta del ricco che ha appena avuto un rovescio finanziario, che l’ha costretto a vendersi i gioielli di famiglia.
Proprio di questo parlano i due documentari di Pino Solanas (Fernando Ezequiel Solanas): Diario del saccheggio (Memoria del saqueo, 2004) e La dignità degli ultimi (La dignidad de los nadies, 2005).
Solanas dedica il “Diario del saccheggio“ «A coloro che resistettero in quegli anni, alla loro dignità e al loro coraggio», e vengono in mente le parole «Resistere, resistere, resistere» che il giudice Borrelli pronunciò in Italia, in situazioni non troppo diverse. Da noi siamo stati –forse- più fortunati, e ci siamo liberati del “Caimano” prima che fosse troppo tardi.

In Argentina il Caimano si chiamava Menem, e la sua politica di “liberalizzazioni selvagge” e di crescita del “debito pubblico” ha distrutto una nazione dalle immense possibilità.
Menem ed il suo ministro dell’economia Cavallo, come da noi il Caimano e Tremonti, brindano a champagne sul futuro radioso del loro governo populista mentre i cittadini si ritrovano in tasca una moneta che è ogni giorno di più carta straccia.

È la tragedia e l’orgoglio di una nazione immensamente ricca (petrolio, miniere, agricoltura, pascoli e allevamenti di bovini, immense greggi di ovini e produzione di lana) e colta, condotta alla fame da governanti truffatori con la complicità delle mafie interessate e con un immobilismo delle classi medie che hanno troppo aspettato.
Per fortuna, dice Solanas, c’è La dignità degli ultimi, coloro che resistettero con la loro dignità ed il loro coraggio ai tempi del saccheggio e della barbarie.

Ma io ho preferito il film narrativo, Bombon el perro (El perro, 2004): tanto le problematiche economiche c’erano tutte anche lì, ma in più c’erano la gente ed i cieli della Patagonia. C’era il vento che spazza le steppe del sud, i coltelli fatti di ossa di nandù (una specie di struzzo del luogo), c’era Trelew, Bahìa Blanca e Caleta Olivia. C’erano le stazioni di servizio perse nel nulla, la solidarietà di chi percorre la “carretera”, l’arte di arrangiarsi di chi sa vivere ai confini del mondo.

Carlos Sorin, che il film l’ha diretto, e Juan Villégas che l’ha interpretato senza neanche cambiare il suo nome, però non si sono assolutamente posti nell’ottica di fare un film sul colore locale, e tanto meno avevano in mente di soddisfare i potenziali turisti che oramai a frotte invadono la Patagonia.
Loro, quelli che nel film ci recitano e quelli che l’hanno girato, magari nemmeno lo sanno che la Patagonia è “uno stato d’animo, un luogo filosofico, un paesaggio dell’anima”, loro ci hanno messo solo la loro dignità ed il loro coraggio.
Per affrontare una vita che sembra volersi prendere gioco di loro ed esasperare le difficoltà di ogni giorno. «Ultimamente, sa, mi trovo un po’ a corto di denaro...» «In questi momenti, sono un po’ in difficoltà, ma appena...».

La storia del meccanico tuttofare Juan e del cane Bombòn (l’unico che ha cambiato nome è proprio il cane Gregorio) è una piccola storia triste di poveri cristi senza un soldo, e senza lavoro, che però si danno una mano, si tengono compagnia, e alla fine riescono pure a sbarcare il lunario.

Leggevo di recente di un’inchiesta americana (America del nord, USA) cui ha fatto eco un’indagine simile in Europa: il tempo è tutto dedicato al lavoro, un po’ allo shopping e il resto al web. Le amicizie non esistono più. La gente non ha più tempo (o voglia) di frequentarsi, e di parlare di cose che contano. Al massimo si parla in famiglia, quando non è accesa la TV, a parlare per tutti.

Riconoscendomi in quest’analisi insieme a tutto il mondo occidentale, sviluppato e liberista, ho sinceramente e ferocemente invidiato i protagonisti di Bombon. Certo, c’è voluta tutta la mia cattiveria ad invidiare un brav’uomo che ha lavorato trent’anni e più ad una pompa di benzina in una steppa polverosa, poi a cinquant’anni l’hanno licenziato e non ha un buco dove andare a stare. La figlia, unica di casa, stenta la vita con bambini piccoli e un compagno depresso, gli altri sono tutti in bolletta e nessuno è in grado di tirare avanti la giornata.
Juan, il protagonista, gira con la sua “camioneta” e spera di trovare un’occupazione che lo tiri un po’ su. Non è la vincita alla grande lotteria, ma la fortuna arriva comunque sotto forma di Bombòn, un grosso (e bellissimo) cane bianco che tramuterà Juan in “allevatore”, che gli farà incontrare un sacco di buona gente e gli darà la speranza ed i mezzi per ricominciare una vita.

In Patagonia: Bombòn el perro


Tutto qui. Nessuno è cattivo in questo film, nemmeno quelli che per copione devono comportarsi male. Ma nemmeno sono eroici o “buonisti”: semplicemente si passano il “mate” e si danno una mano –finché possono- con l’aria dimessa e lo sguardo vuoto di chi ne ha viste troppe. Salvo poi essere sinceramente contenti quando un pizzico di fortuna bussa pure alle loro porte.
Tutto qui. Forse è poco per gli yuppie in carriera che cambiano i destini del mondo al New York Stock Exchange (ce ne sono ancora?). Forse è poco per i furbetti in SUV che ancora scorrazzano per le città italiane dopo essersi arricchiti coll’immobiliare (ce la faranno ancora a pagarsi il pieno di benzina?).
Per Juan, in Patagonia, è abbastanza. E per gli spettatori che si godono i cieli turchese, la sterminata pianura, i piccoli borghi primitivi dove la gente si dà una mano, è molto.

E poi c’è l’orgoglio argentino, da cui magari abbiamo qualcosa da imparare: Bombon è un cane di razza autoctona, un formidabile “Dogo argentino”, dalle mascelle straordinarie, adatto alla caccia e al combattimento, dal portamento nobile, che stupisce tutti gli esperti dell’America del nord, quei grandi ricconi USA che sono conquistati dalla sua altera bellezza.
Chi non sente in queste parole tutta la voglia di rivalsa del “peso” argentino così svalutato rispetto al “dollaro” dei ricchi vicini del nord, allora non sa nulla di un popolo che, negli anni ’30 e ’40, si riteneva il più ricco e nobile di tutto il nuovo continente.

In Patagonia: Bombòn el perro


Uno splendido esemplare di "Dogo"
Il cane Gregorio
Il protagonista di "Bombòn el perro"

Un film argentino
La niña santa
Adolescenza ai confini del mondo, tra religione e liberazione sessuale
Tutto richiama un’Italia degli anni ’50, uscita dal dopoguerra ma non ancora nel boom economico, con le madonne pellegrine ed i predicatori isterici nelle piazze.

Dal 16 novembre al 7 dicembre
Rassegna di cinema argentino
A cura dell'Ambasciata Argentina in Italia



(Mercoledì 28 Giugno 2006)


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