 Un film sul rapporto fra Josef Mengele e suo figlio My father Un lungometraggio di Egidio Eronico
di Roberto Leggio Mio padre, chi era costui? Una domanda che sembra essere una incognita insolubile. Soprattutto se il “padre” in questione è quel Josef Mengele, il mostruoso eugenista di nazista memoria, Angelo della Morte di Auschwitz. Certo che non serva spiegare chi fosse realmente questo assassino in camice bianco, con l’assillo della razza perfetta, dei gemelli e delle tare genetiche; ricercato fin dai tempi del processo di Norimberga e dato per morto (senza essere stato catturato) in Brasile nel 1985, su Mengele è stato ipotizzato di tutto. Quello che non è mai stato chiarito è il rapporto, vero o presunto, con il figlio Herman, avvocato, “non all’altezza della propria storia”. Perché l’ombra del padre ha sempre pesato sulla sua vita come una spada di Damocle. Si da per certo che i due si siano incontrati proprio a Manaus, in Brasile, durante una torrida estate del 1978, nel quale, il figlio per la prima volta dopo quasi quarant’anni abbia finalmente conosciuto il “terribile” genitore.

Di quel mese passato accanto allo sperimentatore di “morte”, ne è stato tratto un romanzo “Dad” dello scrittore tedesco Peter Schneider. La vicenda è naturalmente controversa ma ha dalla sua la potenza di essere una sorta di confessione, o meglio una presa di coscienza, sul più grande crimine perpetrato da mente umana. Con questo materiale il regista Egidio Eronico ne ha tratto un film difficile e probabilmente non completamente riuscito. Perché, sebbene la pellicola sia interpretata egregiamente da Charton Easton, tanto inquietante quanto credibile nella pelle di Mengele padre, e da Thomas Kretschmann in quella del figlio “inconsapevole”, la vicenda si dipana attraverso una narrazione forse un po’ troppo ridotta dalla voce fuori campo e dal poco piglio psicologico che invece avrebbe dovuto sviscerare tutta la sua reale drammaticità. Sembra quasi che Eronico, abbia volutamente, non andare più a fondo nel ricercare l’incontro/scontro “generazionale” tra due epoche tedesche (quella della follia e quella della rimorso), puntando invece sull’enfatizzazione di dialoghi artificiosi che non rendono giustizia alla vera “storia”. Con una regia forse un po’ più intima ci saremmo trovati davanti ad uno spiazzante capolavoro. Di comprensione figliale. Di riflessione umana. Di abnegazione di qualsiasi follia collettiva.

giudizio: *
(Lunedì 12 Giugno 2006)
Home Archivio  |