 La violenza nelle "casette bianche" del sogno americano A history of violence Un'opera matura di David Cronenberg
di Pino Moroni Quando un regista riesce a “suonare” la macchina da presa come uno strumento musicale passando per tutti i suoi registri, ma soprattutto passando attraverso le “sensazioni forti” dell’amore e della morte, si può considerare un regista maturo.
L’ultima volta, più di un anno fa, questa riflessione è sorta per un regista canadese, il Denys Arcand de “Le invasioni barbariche”. Ed è ancora un regista canadese a guadagnare in questa stagione cinematografica la riflessione (quasi fosse una sorta di premio...) che lo fa considerare “regista maturo”: David Cronenberg in occasione del suo film “A history of violence”.

Cronenberg durante la lavorazione di "A history of violence" È la storia della fine del “sogno americano”, che dura da vent’anni, con le casette bianche perdute nel cromatismo autunnale delle foreste del continente americano. Due genitori innamorati e “buonisti”, due figli ben cresciuti ed una società provinciale (Stato USA dell’Indiana) fortemente solidale.
Ed ecco, con due balordi arriva un vento acre di violenza, di polvere da sparo, come in un antico villaggio western. Questa violenza, portata poi in tutto il continente dai mass-media, fa riaffiorare in gruppi criminali antichi rancori e nuove vendette. Solo uno sdoppiato protagonista (Viggo Mortensen), ora buon padre di famiglia e ieri killer di mala, potrà difendere il suo ambiente, il suo nucleo familiare e se stesso scatenando una violenza superiore a quella dei gangster della East Coast (Filadelfia), eredi di quelli dei tempi del proibizionismo. Un “noir” moderno, che non deve niente a nessuno: superiore nelle scene violente e sanguinose a quelle di Quentin Tarantino, superiore nelle atmosfere equivoche e rarefatte della vita di provincia a quelle di David Lynch, paragonabile all’orrore tranquillo del “Fargo” dei fratelli Coen.
Con in più un grande rispetto per l’essere umano, per i suoi sentimenti, per i valori che il protagonista ha conquistato con grande fatica, e che vuole portare avanti contro una violenza che tutto spazza via.

A history of violence Cronemberg, autore anche per la sceneggiatura, realizzatore di “M. Butterfly” (1993), “Crash” (1996), “Spider” (2002), riesce con l’acquisita maestria ad alternare momenti di forte tensione adrenalinica a situazioni di assoluta dolcezza, estrapolando da un racconto robusto una umanità dolente –molto ben interpretata dagli attori- travolta da spirali esterne ed interne di una violenza che rasenta l’orrore.
Il film, comunque, è anche la messa a nudo e la denuncia sociale di una insinuante follia che coglie l’individuo americano, ed esplode (Bowling a Columbine, Michael Moore 2004) con effetti devastanti. La salvezza è solo nella capacità della persona stessa, che può riuscire a ricondurre la violenza nell’ambito della normalità attraverso un suo “alter ego” che è la seconda anima americana: la prima è la violenza armata dei conquistatori del west, la seconda è l’attitudine del buon colono americano che difende disarmato la sua fattoria.

A history of violence Con un elemento in più. La legge, gli uomini della legge, e le grandi distanze, riescono spesso a coprire i più gravi delitti se chi li ha commessi diventa un elemento produttivo della società e si “normalizza”. In questo, il film è molto chiaro. Dice il protagonista: «Sono rimasto tre anni nel deserto a pensare, a cancellare la violenza dalla mia mente, e ci sono riuscito. Voglio ora vivere una vita civile». Ma tutti gli altri film sulle esplosioni di violenza (Un giorno di ordinaria follia, Joel Schumacher 1993, o ancor peggio Quel pomeriggio di un giorno da cani, Sidney Lumet 1975) raccontano di un’America in cui la sottile linea rossa viene scavalcata con estrema facilità.
(Lunedì 9 Gennaio 2006)
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