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Incontro con Roberto Benigni

Un poeta a Bagdad

In occasione dell'uscita de "La tigre e la neve"


di Roberto Leggio


Nel suo nuovo film, La Tigre e la Neve, Roberto Benigni è un poeta.
Ma poteva essere anche qualcos’altro. Un cantore dell’amore impossibile, oppure un cronista impietoso nei confronti di una guerra ingiusta che divora, come la tigre del titolo, la voglia di vivere.
É proprio questo aspetto che muove il candido poeta Attilio a fare di tutto per poter salvare la vita all’unica persona che affolla i suoi sogni di innamorato.
Una storia allegra e tragica sullo sfondo della guerra in Irak, interpretata dallo stesso Benigni, da Nicoletta Braschi e da un bravissimo Jean Reno nel ruolo di un disilluso poeta iracheno.
Tre personaggi che legano il loro destino in un opera stralunata e forse un po’ irritante prima di un finale a sorpresa. Un film nel quale la poetica si contrappone alla tragicità di un massacro, sebbene in qualche punto la realtà della vicenda si sfalda in un farsa sopra le righe. Ma non dimentichiamoci che a reggere le fila è un Benigni in forma smagliate al quale, dopo la brutta esperienza di Pinocchio, si può perdonare tutto. La sua sintassi registica, sempre divisa tra poeticità e dramma, qui si fa densa di significati ponendo la lirica poetica come mezzo per esprimere una pietas universale.

Il film cerca di dare molto spazio alla potenza della parola. Per questo ha scelto un poeta come protagonista principale?
Ho sempre immaginato che un artista è una sorta di sonnambulo che quando si risveglia, inciampa nelle sue stesse parole non sapendo che direzione prendere. Per questo ho pensato ad un poeta come personaggio principale. Mi interessava mostrare il dramma visto attraverso i suoi occhi, con la sua sensibilità di uomo e di intellettuale.

In questo senso nel suo film la poesia vorrebbe salvare il mondo. E’ vero?
Si, perché tutto la storia è come un sogno. Lo si capisce fino dall’inizio con quel matrimonio tra le rovine: lui in mutande che esprime tutto il suo amore alla donna dei suoi sogni. Le parole colpiscono come macigni e arrivano direttamente al cuore. Nel momento topico, però, ogni volta accade qualcosa che cambia le carte in tavola. Il senso della vicenda e della poesia è tutta racchiusa li.


E’ per questo che lei utilizza i volti di quei poeti che si vedono di sfuggita nei sogni di Attilio?
Onestamente potevo utilizzarli unicamente per un fatto tecnico. Poi però mi sono reso conto che quelle belle facce di Borges, Montale, Ungaretti e della Yourcenar, oltre a ricordarci l’alta poesia, sono l’essenza stessa del sogno di cui parlavamo prima. In qualche maniera sono i miti con i quali Attilio è cresciuto, con i quali ha raggiunto quella maturità intellettuale un po’ folle che gli ha permesso di diventare poeta lui stesso.

Il film è un omaggio alla vita e all’amore. Non crede di avergli dato un taglio un po’ troppo buonista?
Non credo che sia un film buonista come non è nemmeno ideologico. Si tratta di un film che va diritto al cuore, al nocciolo del nostro pensiero. Lo definisco un film con l’anima perché è un apologo contro tutte le guerre.

Come è nata l’idea di questo film?
Sono stato trainato in questa vicenda senza che ci sia stata un’idea all’origine ma solo un sentimento: quella di un uomo buffo che passa la vita a mettere le parole in modo che se gli batte il cuore a lui lo deve far battere anche a chi lo ascolta. Il film è una storia d’amore dove la guerra resta sullo sfondo che ho cercato di evocare attraverso delle situazioni limite: il kamikaze imbottito di medicinali, il tip tap sulle mine, i bombardamenti, i saccheggi, la gente in fuga, gli americani ai posti di blocco e la morte dell’amico. Quella forse è la scena più evocativa perché quando c’è una morte di una persona cara è cose se morisse il mondo intero.

Per questo che il poeta più folle sopravvive a quello più riflessivo?
In tutte le guerre le persone più sensibili soccombono. I poeti non tollerano le crudeltà, il crollo di tutte le ideologie e la viscerabilità della vita. Il suicidio di Fuad (Jean Reno nel film NdR) è la metafora della fine del sogno. Mentre Attilio non è così folle come sembra. Sopravvive perché è spinto da un sentimento molto più forte: l’amore per l’unica persona che ama alla follia. E per portare a termine la sua “missione” arriverebbe perfino a morire al posto suo.

Un’impostazione molto religiosa, allora…
Più che altro per l’aspetto furioso di un amore disarmante. Non è un discorso religioso magari eversivo e rivoluzionario.
Sono italiano e sono cresciuto sotto il suono delle campane. Infatti il mio personaggio si rivolge ad Allah, che poi è lo stesso Dio dei cattolici, recitando il Padre Nostro, una preghiera che apprezzava perfino Maometto.

Dato il tema così importante questo è un film più di Benigni o di Cerami?
Quando un regista fa anche lo sceneggiatore ed il produttore, si vincono le primarie e si fanno film “ad personam”. Cerami ha dato senso alla mia idea iniziale ma nel film c’è tutto quello che siamo riusciti a tirar fuori dalle nostre teste. Ci siamo presi delle libertà inventando dal vero alla maniera di Flaubert: raccontare la verità con delle belle menzogne.

Il suo personaggio è coraggioso. Ma per lei cos’è il coraggio?
Una domanda davvero difficile. Credo che il coraggio è stato aver saputo fare un film intimo pur avendo una sua tragicità. Poi lo sguardo sofferto con il quale si guarda l’Irak. Il coraggio è quello di avere ancora da dire qualcosa su questa guerra che come tutte le guerre è ingiusta.

Ma il film uscirà in Iraq?
Spero proprio di si. Le scene ambientate a Bagdad le abbiamo girate in Tunisia con tanti consulenti iracheni che hanno mostrato molto interesse per la sceneggiatura e quindi faremo di tutto per farlo vedere alla popolazione.

Benigni alla conferenza stampa - Foto di Pietro Coccia



(Martedì 4 Ottobre 2005)


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