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M. Night Shyamalan

La paura è il mio mestiere

Il regista di "The village"


di Roberto Leggio


La paura è il mio mestiere. L’incipit è chiaro M. Night Shyamalan, il regista di origine indiana (ma naturalizzato americano) è considerato uno dei cineasti più originali dei nostri tempi, che è riuscito con le sue pellicole a raggiungere sia il cuore che la mente del pubblico di tutte le età, trattando temi universali come fantasmi e la famiglia ne Il sesto senso, il mondo dei fumetti e l’immortalità in Unbreakable e gli alieni ed il destino (ed i dolori interiori) in Signs.

Ora con The Village, Shyamalan riprende il dialogo con gli spettatori facendogli compiere un viaggio che permette loro di osservare ciò che accade quando la paura si impossessa di un’intera comunità.

Il suo film fa proprio l’assioma di Bertrand Russel che diceva “Il dominio della paura è l’inizio della saggezza”. Cosa ne pensa?
È un’ottima osservazione anche perché spontaneamente mi viene in mente che con questo tipo di mentalità, anche in un epoca come questa dominata dal terrore, la vita quotidiana riesce ad andare avanti. Teniamo conto però che non possiamo ignorare la paura, anche perché questo sentimento ci accompagna ogni giorno. Vorremmo non pensarci ma la società moderna ci può dimostrare altrimenti?

In The Village la paura è solo evocata, mentre in tempi attuali essa è presente, tangibile…
La paura non è necessariamente suscitata da qualcosa, spesso è frutto della nostra immaginazione. Il mio intento in questo film è fare in modo che il pubblico abbia modo di esplorare un mondo dominato dalla paura e vedere come, nel caos più completo, si possa trovare un modo per farcela. La risposta sembra semplice però se la riportiamo alla crisi internazionale, qualcosa però non torna…

Perché questo attaccamento al soprannaturale?
Amo il soprannaturale perché è un modo per parlare della fede. È importante per capire quanto la religiosità possa intossicare le persone. In questo film, credo di aver esorcizzato il soprannaturale attraverso l’amore. Ed è proprio l’amore che spinge la ragazza cieca (Bryce Dallas Howard Ndr) ad attraversare il bosco per salvare la persona a cui tiene di più. Certo, un ragazzino di quindici anni che vede questo film non può cogliere appieno la tematiche socioculturali della storia. I semi però li ho gettati…

A ben vedere il soprannaturale e le favole nere fanno spesso parte di una educazione socioculturale…
Certo, la storia dei mostri che gli anziani del villaggio si inventano è l’elemento più spaventoso del film. Ho cercato di immaginare i demoni, dargli forma e sostanza. Le entità del bosco non sono altro che la proiezione del dolore che gli anziani hanno subito nella loro vita. Di contrappunto sono anche una sorta di espiazione delle loro colpe, che in filigrana sarebbero quelle della società contemporanea, filtrata attraverso il racconto fantastico con il quale tengono unita e scevra da ogni pericolo la piccola comunità. Era importante capire come essi siano arrivati a tale maturazione e cosa sarebbero costretti a fare pur di non cadere in contraddizione.

Negli Stati Uniti ci sono però molti villaggi isolati. La violenza è presente anche li, però…
La violenza e la paura sono sentimenti intrinsechi dell’animo umano. Ma non credo che l’uomo sia un animale cattivo. Credo piuttosto che se potessimo togliere all’uomo le ambizioni e potessimo tornare a vivere nella semplicità come gli abitanti del villaggio, adesso non impazziremmo per avere una macchina ed un computer. La storia si svolge alla fine del XIX secolo, dopo la guerra civile e prima dell’era industriale, quando si viveva in modo più semplice, quando ancora non erano i soldi e l’avidità a regolare ogni cosa. La gente parlava senza sarcasmo e nella loro voce si percepiva la sincerità e l’onesta. Ognuno dipendeva dall’altro. È un’immagine idilliaca ed forse in quella direzione che tutti noi vorremmo tornare.

The Village è in fondo un film d’amore. E’ questa formula che forse ha deluso il pubblico americano?
Non credo di avere una risposta per spiegare la delusione del pubblico nei confronti di questo film. Il marketing, come il trailer è stato trattato per mascherare questa storia come una vicenda di paura soprannaturale. Forse la colpa è stata anche mia che ho spinto la cosa su questo piano. La stessa cosa è avveduta con Unbrekable, nel quale calcai la mano per non far capire che si trattava di una storia di supereroi. In entrambi il soprannaturale non è espresso in maniera esplicita e chi si aspettava dei film sensazionali ne è rimasto totalmente spiazzato.

Perché mandare una cieca alla ricerca di aiuto?
La ragazza cieca è la più equipaggiata degli altri ragazzi del villaggio per portare a termine il suo compito, perché è spinta dall’amore che prova nei confronti del suo amato. In poche parole, la cecità è solo un pretesto per poter dire che la forza dell’amore è irresistibile.

The Village è una profonda riflessione sulla attuale storia americana. Quando ha iniziato a pensare al film?
Ho pensato a questo film un anno e mezzo dopo l’undici settembre. La domanda che mi sono posto è stata “Dov’è che abbiamo sbagliato?”

In filigrana si può intravedere una sorta di autoprotezioinismo degli Stati Uniti nei confronti del terrorismo?
La cosa in questi termini è molto interessante. È facile fare delle associazioni tra la vita politica americana ed il film. Non era però nelle mie intenzioni esprimere il mio pensiero politico nei confronti della politica negativa di Bush.

Ci può spiegare la valenza del rosso e dell’ocra, presenti nel suo film?
Non serve avere un grande cognizione psicologica per capire che il Rosso è il colore del male e dell’aggressività. Il Giallo Ocra invece è forse un po’ più complesso da spiegare perché pochi sanno che è il colore collegato alla pacificazione, alla calma. Ogni colore ha un impulso sulla psicologia della persona.

La storia complessa di The Village ha forse un punto di partenza?
L’orrore non centra anche perché se dovessi dire quale film mi hai ispirato per scrivere questa storia direi Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir e I Compari di Robert Altman, perché sono una fonte inesauribili di idee e perché sotto la loro patina sono molto più divertenti di quanto non crediate.

Come definirebbe il suo stile?
Mi piace pensare che sono un autore che si colloca tra il teatro ed il cinema. Quando giro una scena penso a come potrei montarla. Non mi piace tagliare quindi preferisco un’impostazione molto teatrale, lasciando agli attori la possibilità di improvvisare e quindi di essere i più realistici possibile.

Lei ha una grande capacità di trattare la suspence. Ci spiega qual la sua metodogia?
Il processo narrativo è sempre l’aspetto più importante per realizzazione di un film. Ecco perché mi piace scrivere sceneggiature che abbiamo alla fine un effetto sorpresa. Allo stesso tempo cerco di far si che le storie abbiamo quella certa umanità che permette al pubblico di riflettere, una volta usciti dalla sala, su qualcosa di valido. Credo che questo film sia molto diverso dai miei film precedenti perché è frutto della mia crescita e della mia evoluzione di cineasta.

Dopo The Village come vorrà spaventarci?
Nell’immediato futuro sono impegnato nella promozione del film in giro per l’Europa. Per quanto riguarda il mio prossimo lavoro ho un idea vaga da sviluppare e per questo non voglio fare parola.



(Lunedì 8 Novembre 2004)


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