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Orson Welles a Las Vegas

Un'occasione mancata

Un incontro


di Piero Nussio


Luglio 1979: stanco della soffocante e mefitica Los Angeles avevo preso una macchina in affitto ed ero fuggito in direzione nord-est, verso il deserto del Nevada. La mia meta era Las Vegas, come avevo visto fare in tanti film.
Ci arrivai verso sera, ed era tutto come m'aspettavo. Al Cesar's Palace teneva lo spettacolo Dean Martin. Dappertutto c'erano malefiche vecchiette con gli occhiali a farfalla pieni di lustrini, che si giocavano alle slot machines i soldi della pensione.
Me ne andai all'MGM Theatre, dove c'era uno spettacolo a metà fra il circo e le Zigfield Follies. Gli scimpanzè intelligenti si facevano beffe del domatore fra grasse risate, poi scendevano dai pali dei pompieri una miriade di belle ragazze vestite alla Carmen Miranda per il numero coreografico, e il tutto si concludeva con "Stars and strips forever"...
Il giorno dopo percorrevo la via principale in un caldo soffocante, e scorrevano gli alberghi di lusso con piscina e palmizi, quando ad un semaforo vedo un macchinone bianco, più grosso e lussuoso del normale. Mi sembrava che fosse..., ma quando mi sono accostato non ho avuto più dubbi: sotto un cappello nero e col grosso avana in bocca c'era Orson Welles.
Ho cercato d'abbassare il finestrino per dirgli «Orson, che ci fai impantanato in questo postaccio?», ma per l'emozione o per le complicazioni di una macchina troppo telecomandata sono riuscito solo ad azionare il tergicristallo posteriore.
Intanto il semaforo è scattato. "Segua quella macchina" mi sono ordinato mentalmente. Intanto cercavo di stamparmi tutti i particolari nella mente: grasso e sfatto come i generali messicani che andava interpretando nei filmacci, accanto a lui c'era una ragazzina di 13-14 anni. Sarà sua figlia -pensai- ma di quale moglie? Certo non di Rita Hayworth, è dal 1948 che si sono lasciati...Potrebbe essere una figlia avuta da Paola Mori, l'italiana che sposò dopo Arkadin...Se ci parlo, magari è contenta di sentire un italiano...
Poi scompare in una stradina sulla destra. Giro anch'io come posso, ma lo perdo. È un quartiere residenziale, pieno di ville. Vado avanti alla cieca per 4 o cinque chilometri, senza troppe speranze: forse ho sbagliato e non era la macchina Orson che ha voltato qui. Invece, dopo poco, lo vedo arrivare, in direzione opposta alla mia e solo, senza più la ragazzina.
L'avventura è l'avventura: faccio una conversione ad U facendo fischiare le gomme e sono di nuovo all'inseguimento. Mi sembra d'intravvedere in lontananza la sagoma della sua macchina. Torno alla via principale: ormai è perso, chi lo potrebbe trovare fra tanto traffico...
Allora, al primo spazio che trovo, mi fermo e scendo dalla macchina a scaricare l'adrenalina accumulata. Che ci fa Orson Welles a Las Vegas? Bah, forse ci vive, o ci sta per lunghi periodi. Dove ho letto che è patito del gioco, e che pure a Venezia passava più tempo al tavolo verde che al Palazzo del Cinema? Ma no, a Venezia ci stava per girare qualcuna delle scene di Otello, figuriamoci se aveva tempo e soldi da sprecare al Casinò!
Già, pensavo, la vita di Orson Welles forse si deve leggere nelle cronache dei settimanali popolari degli anni '60 e '70, non nelle storie del cinema. I critici hanno, certo, lodato la sua opera. Bazin, ad esempio, ha scritto che ha rivoluzionato la tecnica del film dando un nuovo significato alle scenografie con soffitti, alle immagini in chiaro-scuro, alle inquadrature-sequenza, alla profondità di campo, alla deformazione impressionistica dei primi piani, al flashback. Ma di Welles conta anche il personaggio, la mole, le sbronze, le donne: non si può immiserire su giudizi tecnici un uomo che ha fatto film il suo stesso vivere.
La sua vita è stata il più wellesiano dei suoi film, "Citizen Welles" è più aspro e inquieto di "Citizen Kane" (Quarto Potere), il suo capolavoro riconosciuto.
"Quarto Potere": il primo lungometraggio, un film fatto quando aveva 25 anni. Il massimo dei capolavori, il primo nella lista dei "cento film da salvare". Il critico USA Leonard Maltin dice che è un film che rompe tutte le regole e ne inventa parecchie di nuove. Ma andatelo a spiegare alla giuria degli Oscar del 1941. Quelli, almeno gli dettero il premio per la migliore sceneggiatura, ma certo che il Miglior Film lo assegnarono a "Com'era verde la mia valle" dove (Sadoul) c'era qualche frecciata contro il bigottismo, ma anche molte prediche edificanti...
Spiegatelo al grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, che insieme a tanti altri, lo considerò un film "abrumador", noioso.
Oppure andatelo a spiegare a William Randolph Hearst (il mega Berlusconi dell'epoca) che vi si riconobbe e cercò di bloccare il film.
Poi, soprattutto, spiegatelo al pubblico d'allora, che di Quarto Potere ne fece uno dei più grandi fiaschi del cinema. Così, a metà del secondo film, la RKO lo licenziò e si mise a produrre "Il bacio della pantera" ed altre piacevolezze del genere, incassando una montagna di soldi.
Eppure Orson Welles il cinema lo sapeva fare, da ogni punto di vista. Come sceneggiatore, come regista, ed anche come attore. In Quarto Potere ci sono tutti gli stili ed una tensione che non permette distrazione. Inchiesta, ricerche, ambientazioni, situazioni, luoghi, scene solitarie e di folla. E la macchina che entra nel locale della seconda moglie sempre dall'abbaino del tetto, come fosse una cornacchia. Diceva, sbruffone, «Nel cinema, come in qualsiasi mestiere, la tecnica s'impara in quattro giorni. Il mistero è come servirsene per farne un'arte». Però, in Quarto Potere si servì del grande fotografo Gregg Toland e dell'obbiettivo panfocale, che dava alle immagini tutta la loro profondità di campo ed un grande realismo.
Il problema vero era che nel '40, nel '50, e poi sempre, la gente cercava patriottismo e consolazione. Cercava John Wayne senza paura e Gary Cooper senza macchia. O al massimo, James Stewart, Mr. Smith che va a Washington col candore e l'onestà del contadino. Che se ne faceva l'America, e il mondo, di uno che si divertiva a spaventarla, alla radio come al cinema? Di uno che, invece di costruire il mito della libertà di stampa, raccontava come fosse facile manipolare le persone e le opinioni. Charles Foster Kane è il capitalismo USA degli anni '40, simpatico perchè geniale e strafottente. Potente e riverito quand'è all'apice, solitario e megalomane quand'è al declino. Affamato d'arte e di cultura da comprare a suon di dollari per riempirci la triste gabbia di Kandalù.
Orson Welles queste cose le aveva capite quando aveva 25 anni e si provò a raccontarle in giro. Le raccontò senza tanta retorica, con i cinegiornali, i flashback e quel simpatico snob di Joseph Cotten. Ma non bastò.
Allora s'incattivì. Fece qualche film, come Otello, per dimostrare quant'era bravo, e qualche film come La signora di Shangai, Macbeth e L'infernale Quinlan per raccontare come fosse disilluso dall'umanità.
Dopo gli restò il tavolo verde, i sigari Avana e le parti da grasso colonnello messicano. Gli toccò di fare i film con Totò, con Sylva Koscina, con Tomas Milian. Divenne il fantasma del cinema, un fantasma ingordo ed ingombrante di 140 chili. Ti ricordi, Orson, il finale della "Signora di Shanghai", dicevi «L'importante è saper invecchiare bene». Non ci sei mica tanto riuscito, sei stato per noi una bella occasione, ma un'occasione mancata.
Come l'apparizione di quel pomeriggio a Las Vegas. Un brivido d'avventura e di vita subito spento dall'imbrunire e dalle insegne luminose dei Casinò che cominciavano ad accendersi.



(Domenica 1 Agosto 2004)


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